martedì 22 dicembre 2009

Unser Mund sei voll Lachens BWV 110

Unser Mund sei voll Lachens
und unsre Zunge voll Ruhmens.
Denn der Herr hat Grosses an uns getan.
(La nostra bocca rida di gioia
e la nostra lingua ti renda lode.
Grandi cose ha fatto il Signore per noi.)

giovedì 29 ottobre 2009

L'arte di sedurre con la musica di Arrigo Quattrocchi (1) Praga e Vienna

Le origini di Don Giovanni risiedono nel travolgente trionfo che il pubblico di Praga tributò, alla fine del 1786, a Le nozze di Figaro, l'opera su libretto di Lorenzo Da Ponte che era andata in scena sette mesi prima, il 1° maggio 1786, al Burgtheater di Vienna. Invitato a constatare di persona l'entusiasmo che la sua partitura aveva destato, Mozart giunge a Praga l'11 gennaio 1787. Quattro giorni più tardi poteva scrivere all'amico Gottfried von Jacquin: "[...] d'altro non si parla se non di Figaro, altro non si suona, intona, canta e fischietta se non Figaro. Non si assiste ad altra opera se non a Figaro e sempre Figaro. E' certo un grande onore per me." Praga, città di grandi tradizioni musicali, dotata di un pubblico di gusti raffinati e progressisti, garantì dunque al compositore un successo autentico e duraturo; mentre a Vienna, città di gusti più conformisti e "italianisti", Le nozze di Figaro avevano avuto un'accoglienza buona ma non univoca. Nella capitale dell'impero Mozart era considerato come un compositore geniale sì, ma stravagante e complesso, di ostica comprensione. Dal trionfo praghese ebbe origine dunque la commissione per una nuova opera, destinata al medesimo Teatro Nazionale, diretto da Pasquale Bondini, e alla medesima compagnia dell'impresario Domenico Guardasoni. Sulla genesi del futuro Don Giovanni non abbiamo molte informazioni. E' del tutto ovvio che, riguardo alla scelta del librettista, Mozart si rivolgesse a Lorenzo Da Ponte, che aveva redatto magistralmente il libretto delle Nozze di Figaro e ricopriva a Vienna il posto di poeta imperiale. Allo stesso Da Ponte dobbiamo una testimonianza diretta, conservata però nelle sue Memorie, pubblicate a oltre trent'anni dai fatti. Vi si legge di come il poeta scrivesse contemporaneamente tre libretti diversi, per i compositori Antonio Salieri, Vicente Martin y Soler e appunto Mozart.
"Pensai se non fosse possibile di contentarli tutti e tre e di far tre opere a un tratto. Salieri non mi domandava un dramma originale. Aveva scritto a Parigi la musica all'opera del Tarar [...] e me ne domandava quindi una libera traduzione. Mozzart e Martini lasciavano a me interamente la scelta [del soggetto]. Scelsi per lui il Don Giovanni, soggetto che infinitamente gli piacque, e L'arbore di Diana pel Martini [...]. Trovati questi tre soggetti, andai dall'imperadore, gli esposi il mio pensiero e l'informai che mia intenzione era di far queste tre opere contemporaneamente. - Non ci riuscirete! - mi rispose egli. - Forse che no - replicai; - ma mi proverò. Scrivero la notte per Mozzart, e farò conto di leggere l'Inferno di Dante. Scriverò la mattina per Martini, e mi parrà di studiar il Petrarca. La sera per Salieri, e sarà il mio Tasso".
Autoelogiative e, in sostanza, poco utili sono le osservazioni di Da Ponte, da prendersi con cautela. Nessuna notizia diretta della collaborazione fra librettista e compositore. E nella corrispondenza di Mozart nessun accenno vi è alla stesura della partitura, che si stima sia stata iniziata nel mese di marzo. Al più tardi nel mese di agosto fu fissata la data della prima esecuzione, il 14 ottobre, per celebrare il passaggio a Praga dell'arciduchessa Maria Teresa, destinata in sposa al principe Antonio Clemente di Sasso­nia. A Praga Mozart arrivò il 4 otto­bre, con una partitura ancora incom­pleta (era consuetudine il rifinire l'opera a stretto contatto con gli in­terpreti); mancavano almeno l'aria di Masetto (n. 6: "Ho capito, signor sì"), il duetto iniziale del secondo atto (n. 14: "Eh via buffone") e l'intero Finale del secondo atto; nonché l'ouverture, che una testimonianza riconducibile alla vedova del compositore afferma essere stata scritta appena due notti prima della rappresentazione. Anche Da Ponte - subito dopo la prima del­l'Arbore di Diana di Martin y Soler - si recò a Praga, giungendovi il 7 ottobre, ma dovette far ritorno a Vienna sen­za aver assistito all'opera, richiamato dall'imperatore per curare il debutto dell'opera di Salieri, Axur, Re d'Ormus. Possiamo immaginare, secondo l'uso del tempo, un breve e serratissimo pe­riodo di prove nel quale Mozart fu im­pegnato ad insegnare una partitura nuova e difficilissima alla compa­gnia di canto. Così, il 15 ottobre Mo­zart poteva scrivere a von Jacquin: "Probabilmente lei crederà che a que­st’ora la mia opera sia già stata rap­presentata, e invece sbaglia, sia pur di poco. In primo luogo il Personale tea­trale di qui non è abile come quello di Vienna, al punto da imparare in così poco tempo un'opera del genere. In secondo luogo, al mio arrivo ho veri­ficato che le disposizioni e i preparativi erano a uno stadio così poco avan­zato che sarebbe stato assolutamen­te impossibile rappresentarla il 14, cioè ieri. Ieri dunque, con tutto il teatro illuminato, è stato rappresentato il mio Figaro, che ho diretto io stesso".
Dunque l'arciduchessa dovette ri­nunciare alla nuova opera, e conten­tarsi di una ripresa delle Nozze di Fi­garo; fissata per il 24, la prima subì un ulteriore rinvio per la malattia di una cantante. Finalmente, il 29 l'opera andò in scena, "accolta con il più vivo entusiasmo", come scrisse Mozart a von Jacquin. La Oberpostamszeitung di Praga del 3 novembre riferì dell'esito: "Intenditori e musicisti affermano che a Praga non si è mai sentito nien­te di simile. Herr Mozard [sic] in per­sona ha diretto: quando fece il suo in­gresso nell’orchestra fu salutato con una triplice acclamazione, e lo stesso accadde quando la lasciò. Per di più l’opera è estremamente difficile da eseguire e tutti ammirarono la buona esecuzione che ne è stata fatta no­nostante la difficoltà e dopo un perio­do di studio così breve. Sul palcosce­nico e in orchestra, tutti hanno fatto il massimo sforzo per ringraziare Mozard, ricompensandolo con una buona esecuzione. [...]. Il pubblico in­solitamente numeroso dimostra la unanime approvazione". Secondo Franz Niemetschek - musicografo boemo, autore, nel 1798, di una impor­tante Vita di Mozart - "Quando, per la prima rappresentazione, Mozart apparve in orchestra, dove suonava la parte del clavicembalo, il teatro pie­no da scoppiare l'accolse con un tuo­no di applausi"; testimonianze, que­ste, eloquenti del particolare legame fra il compositore e la città, dove Don Giovanni rimase stabilmente in reper­torio per i decenni successivi. Ben di­versa la sorte che attendeva l'opera di Mozart a Vienna. Significative a que­sto proposito, anche se in parte fuor­vianti, le parole di Da Ponte: “Io non avea veduto a Praga la rappre­sentazione del Don Giovanni; ma Moz­zart m'informò subito del suo incon­tro maraviglioso, e Guardassoni mi scrisse queste parole: 'Evviva Da Pon­te, evviva Mozzart. Tutti gli impresa­ri, tutti i virtuosi devono benedirli. Fin­ché essi vivranno, non si saprà mai che sia miseria teatrale'. L'imperado­re mi fece chiamare e [...] mi disse che bramava molto di vedere il Don Gio­vanni. Mozzart tornò, diede subito lo spartito al copista, che si affrettò a ca­vare le parti, perché Giuseppe dove­va partire. Andò in scena, e... deggio dirlo? il Don Giovanni non piacque! Tutti, salvo Mozzart, credettero che vi mancasse qualche cosa. Vi si fecero delle aggiunte, vi si cangiarono delle arie, si espose di nuovo sulle scene; e il Don Giovanni non piacque. E che ne disse l'imperadore? - L'opera è divina, è forse forse più bella del Figaro, ma non è cibo pei denti de' miei vienne­si -. Raccontai la cosa a Mozzart, il quale rispose senza turbarsi: - Lasciam loro tempo da masticarlo -. Non s'in­gannò. Procurai, per suo avviso, che l'opera si ripetesse sovente; ad ogni rappresentazione l'applauso cresceva, e a poco a poco anche i signori vien­nesi da' mali denti ne gustaron il sa­pore e ne intesero la bellezza, e pose­ro il Don Giovanni tra le più belle ope­re che su alcun teatro drammatico si rappresentassero".
In realtà a Vienna Don Giovanni, anda­to in scena non immediatamente, ma il 7 maggio 1788, ebbe in tutto appe­na quindici recite, l'ultima delle qua­li il 15 dicembre; tutte le fonti sono concordi sulla sostanziale freddezza dell'accoglienza. E questo nonostante la presenza di una compagnia di can­to di sicuro rilievo, nella quale, accan­to a cantanti italiani, agivano anche due star tedesche come Caterina Ca­valieri (in realtà Franziska Kavalier) e Aloysia Lange. Le scarne testimonian­ze dei contemporanei (“M.me de la Lippe trouve la musique savante, peu propre au chant"; "La Musique de Mo­zard est bien trop difficile pour le chant”, scrivono spettatori dell'epoca) suggeriscono che la ricchezza dell'or­chestra mozartiana risultasse sgradi­ta ai viennesi, che prediligevano, se­condo le tendenze italianiste, il pre­dominio della vocalità. Fatto sta che proprio con l’insuccesso del Don Giovanni doveva cominciare la parabola discendente delle fortune del compo­sitore nella capitale. La testimonian­za di Da Ponte introduce ad un'altra questione, quella delle modifiche ap­portate da compositore e librettista all'opera per le rappresentazioni vien­nesi (prima delle recite, comunque, e non nel corso di esse, come vorrebbe Da Ponte). Quella di adattare l'opera alle esigenze della nuova compagnia di canto era una prassi del tutto co­mune, e si comprende come Mozart ritenesse di dover gratificare con una pagina adeguata una virtuosa come la Cavalieri, e, forse, di dover semplificare i compiti del tenore Francesco Morella. Tuttavia Mozart e Da Ponte intervennero con modifiche più incisive e tali da influire sulla drammaturgia, relative a una comples­siva ristrutturazione delle scene suc­cessive al grande Sestetto del secondo atto (n.19, "Sola sola in buio loco"). Queste modifiche possono essere riassunte in tre punti:
1) L’aria di Don Ottavio (n. 21, "Il mio tesoro intanto"), probabilmente sgra­dita al tenore Morella per le difficili coloratura, fu soppressa. Il cantante fu compensato con una nuova aria, (n. 10a, "Dalla sua pace"), collocata però in un altro punto dell'opera (al termi­ne del recitativo "Come mai creder deggio", atto 1, scena XIV).
2) L’aria di Leporello (n. 20, "Ah pietà signori miei") fu soppressa e sostitui­ta con un breve recitativo. Di segui­to - poche battute di recitativo più ol­tre - gli autori inventarono una nuo­va scena buffa, un duetto fra Leporel­lo e Zerlina, (n. 21a, "Per queste tue manine"), incorniciato fra due nuovi recitativi.
3) Di seguito al duetto Leporello-Zer­lina gli autori aggiunsero una grande scena e aria per Donna Elvira (n. 21b, "In quali eccessi, o Numi - Mi tradì quell'alma ingrata"), una pagina dram­matica pensata su misura per la disin­volta coloratura di Caterina Cavalieri.
Su una quarta modifica, attestati da fonti autorevoli, sono stati avanzati molti dubbi. Secondo il libretto stam­pato per le rappresentazioni vienne­si la "Scena Ultima" dell'opera fu sop­pressa, e l'opera venne fatta termina­re alla morte di Don Giovanni con la seguente didascalia: “il foco cresce D. Gio. si profonda; nel momento stesso escon tutti gli altri; guardano, metton un alto grido, fuggono, e cala il sipa­rio". Questo nuovo finale sembra confermato dall'aggiunta, sull'autografo, di un accordo di re maggiore sul­l’esclamazione "Ah!", affidato a tutti i personaggi in coincidenza del "gri­do" di Leporello (sembra oggi tramon­tata l'ipotesi di uno studioso che l'aggiunta dell'accordo non sia di mano di Mozart). Ma questo accordo risulta poi cancellato sull'autografo. Mozart potrebbe aver reintegrato la "Scena Ultima" (o parte di essa, sen­za il duettino Anna-Ottavio) nel cor­so delle repliche. Purtuttavia non è possibile, allo stato attuale delle co­noscenze, giungere a conclusioni de­finitive su questo punto.

venerdì 17 luglio 2009

tema e variazioni (4): Handel-Brahms II

Certamente la musica di Brahms non segue di norma il criterio dell'"intrattenimento": è una musica essenzialemente seria che, inoltre, rifugge ogni virtuosismo spettacolare anche quando (e ciò si verifica spesso) è complessa e difficile.
Caratteri, questi, rintracciabili anche nelle sette composizioni pianistiche in forma di Variazione. Quest'ultime accompagnano gran parte della vita di Brahms: dal 1853 (le Variazioni su un canto ungherese op.21 n.2) al 1873 (le Variazioni su un tema di Haydn op.56 per due pianoforti).
Le Variazioni su un tema di Handel op.24 vedono la luce nel 1861. Nel settembre Brahms aveva fatto ritorno ad Amburgo, la città natale, e, forse influenzato dai ricordi di giovinezza, si gettò in questa impresa ambiziosa, riuscendo peraltro a portarla a compimento in breve tempo. Nel dicembre, sempre ad Amburgo, Clara Schumann le eseguì per la prima volta in pubblico e successivamente anche lo stesso autore le portò in concerto. Fu proprio in una di queste occasioni, a Vienna, che Wagner ebbe modo di ascoltarle e di riceverne un'impressione estremamente favorevole.
Il tema è un'aria strumentale dalla linea melodica suadente e nobile, estremamente ornata pur nella sua semplicissima struttura e predisposta ad essere trattata come una fonte ricchissima di trasformazioni. Proviene dal secondo volume delle Suite de pièces di Handel del 1733, dedicate alle giovani figlie del principe del Galles.
Brahms la elesse a tema della sua composizione e ne fornisce venticinque mirabili metamorfosi che mantengono una relazione stretta con l'aria e che sfociano in una stupenda Fuga a quattro voci. E' una vera e propria manifestazione di sapiente contrappunto che culmina in una perorazione sonora e maestosa che però non disdegnerebbe di essere seguita dalla ripresa della nobile aria iniziale (e tutto potrebbe continuare in circolo).

mercoledì 8 luglio 2009

tema e variazioni (3): Handel-Brahms

In sottofondo, Vladimir Ashkenazy ne esegue il Tema e le prime quattro variazioni.
«Di solide dimensioni, il suo prepotente dominio della tecnica pianistica è superato soltanto dalle Variazioni su un tema di Paganini, di poco posteriori. Wagner, dopo aver sentito Brahms suonare le Variazioni Handel nel 1864, fece il celebre commento: "Questo dimostra quel che può ancora fare con le vecchie forme chi sa come usarle", rivelando così che considerava l’opera come una rigorosa dichiarazione di principio artistico. Le Variazioni Handel sono un consolidamento sistematico della padronanza acquisita da Brahms – risultato dei suoi intensi studi negli anni Cinquanta. La scelta d’un tema barocco, il rigore delle variazioni, la purezza della sua concezioni pianistica e la generosa profusione di dottrina contrappuntistica nella fuga finale – tutto congiura ad assegnare a Brahms la parte di conservatore e rianimatore d’una lunga e illustre tradizione musicale.
Il tema proviene dall’Aria con variazioni dalla Suite per clavicembalo in si bemolle maggiore di Handel – una linda e vivace breve melodia che, per i suoi periodi equilibrati e la sua franchezza armonica, rappresenta un ideale soggetto di variazioni. Partendo da questa melodia, Brahms scrive venticinque variazioni che, pur conservando le proporzioni e la tonalità del tema originale, esplorano atmosfere e caratteri posti in vivace contrasto, e una sequenza di stili che va dal “neo-barocco” al cromatismo contemporaneo. La fuga conclusiva – un’ampia e maestosa struttura che schiude nuovi orizzonti musicali – procede in uno stile polifonico debitore tanto delle tarde opere pianistiche di Beethoven quando delle fughe di età barocca. La maestosa veemenza della conclusione incarna sicuramente l’orgoglio d’un compositore conscio d’aver raggiunto con la propria opera il dominio estremo sulla forma prescelta». (Malcom MacDonald)

giovedì 18 giugno 2009

musica come linguaggio

Oltre la classica definizione di "arte dei suoni", la Musica (che però, ovviamente, come ogni complessa attività umana, non accetta di essere ingabbiata in qualche definizione) è ormai riconosciuta come un "linguaggio": il "linguaggio della musica", appunto.
In questo senso, accostando "musica" e "linguaggio", si può dedurre che la prima è uno dei tanti insieme di codici umani che trasmettono, conservano ed elaborano informazioni. E se l'accostamento perdura, dobbiamo cercare di individuarne tutte le somiglianze e le differenze. Ogni linguaggio è composto di elementi che hanno un determinato significato in quanto coordinati fra di loro attraverso unità che vanno dalla più piccola alla più grande; inoltre il significato di un linguaggio è determinato anche dalla connessione dei suoi elementi con altri elementi extra-linguistici (il soggetto che utilizza quel codice, la situazione, l'ambiente...). Per questo le varie forme linguistiche non hanno un significato determinato se non in quanto costituiscono delle totalità strutturate (diciamo, ad esempio, che diventa più complesso comprendere un discorso di cui non si è sentito l'inizio o, per rimanere in tema musicale, che un brano andrebbe ascoltato integralmente per essere capito).
Anche la musica, credo proprio, è una sorta di linguaggio che possiede tutti suoi elementi e tutte le sue possibilità di combinarli per giungere alla comunicazione tra chi la produce e chi la fruisce. Ma già qui mi viene da fare un paragone con altri linguaggi "artistici": in quello musicale ha una grande rilevanza un altro personaggio che fa da tramite tra il mittente ed il destinatario. Si tratta dell'interprete (chiamiamolo come si vuole) che agisce sulla materialità del suono - che, come la materialità di altre arti, è elemento imprescindibile - per divenirne veicolo. Beh, certamente si potrebbe già obiettare che il nudo testo di un qualsiasi brano è sufficiente per giungere al destinatario, ma mi sento di concordare con un esempio di Piero Rattalino relativo all'Arte della Fuga di Bach: "Il nudo testo di Bach è più che sufficiente per chi, conoscendo la musica, è anche il fortunato possessore del cosiddetto orecchio assoluto. Per chi conosce la musica senza avere l'orecchio assoluto ci vuole il clavicembalo. Chi nè conosce la musica nè ha l'orecchio assoluto, avrà bisogno per lo meno del pianoforte, ma si troverà molto più a suo agio con il quartetto d'archi e ancora di più con l'orchestra".
Per tentare un'analisi estremamente sommaria di questo "linguaggio della musica", si potrebbe partire (come succede anche in altri linguaggi) dalle "forme" utilizzate. D'altra parte è vero che la forma è ciò che organizza e, in un certo senso, costituisce e confeziona il messaggio che si vuol diffondere. E qui sorge uno di quello che ritengo tra i più grandi problemi: capire la forma della musica. Non sono un esperto delle altre arti ma credo che si possa più o meno individuare a quale genere appartenga un certo prodotto artistico (difficile è confondere un acquerello con un olio, ancor più difficile scambiare una scultura per una tela). Il caso forse più facile è quello della letteratura perchè anche a scuola si studiano le forme e i generi utilizzati dai vari autori: un romanzo non è un sonetto; altro è l'endecasillabo altro è il verso sciolto (e le cose cambiano già a livello sonoro e, ovviamente, anche a livello contenutistico perchè la scelta da parte dell'autore non è certamente affidata al caso).
Sarà possibile capire quali forme utilizza l'arte sonora? Certo, esistono e si studiano (non a scuola, però!) ma non basta un colpo d'occhio nè sfogliare qualche pagina per averne subito un'idea. Ci vuole del tempo. Credo che la musica sia un'arte che richieda un tempo da lei dettato (assimiliabile in questo al teatro e al cinema). Riporto un passo pertinente di Daniel Baremboim: "Ascoltare musica è diverso dal leggere un libro ... Quando ascoltiamo un brano musicale durante un concerto, non possiamo ripetere - rileggere, per così dire - una frase o una sezione che non abbiamo compreso appieno. L'ascoltatore deve modulare la propria concentrazione - se non addirittura la propria coscienza - per ricevere il materiale musicale che viene eseguito".
Con i supporti attuali è però possibile ascoltare e ri-ascoltare quando si vuole, andare avanti se un passo non ci piace o tornare indietro se ci ha interessati. Però questo non è lo standard perchè penso proprio che la musica sia un'arte che abbia la caratteristica di essere non solo "pubblica" ma anche "comunitaria" (anche un dipinto in una cappella è pubblico ma possono esserci anche solo due occhi che lo contemplano). La musica nasce invece sempre in compagnia e quindi, l'idea di fruirne "da soli" quasi la snatura (mi dispiace dirlo perchè anch'io spesso l'ascolto da solo, ma credo che sia così). Ed effettivamente oggi l'ascolto (ma è già una parolona) della musica è ridotto o alle cuffie personali o ad un sottofondo ad altre attività che ovviamente non permette di capire molto neanche di un brano semplice.
Così diventa estremamente difficile fare un discorso sulla forma musicale (e, soprattutto, sul perchè una data forma è stata eletta dall'autore a trasmettere un contenuto).

lunedì 15 giugno 2009

ballata op.47

Si distingue questa terza Ballata dalle altre per il suo carattere sicuramente più luminoso e notevolmente meno tragico.
Il primo tema, nella tonalità di impianto di la bemolle maggiore, dà vita ad una lunga prima sezione conclusa in se stessa e che si estende sino alla battuta 54. Racchiusa da un frammento meolodico ascendente che dà il senso di un'apertura (ma di un'apertura discreta), comprende in sè delicatissimi momenti di curiosità e di incertezza che, ad un certo punto, si divertono saltellando su trilli e brevi volatine.
A questa sezione subentra un secondo periodo (in fa maggiore) che presenta un tema dalle fattezze molto nobili, dolci ed ondeggianti. All'interno di questa parte troviamo già un frammento melodico in fa minore (battuta 82) che avrà importanza nello sviluppo successivo del brano e che altro non è che l'esasperazione drammatica di ciò che era già contenuto nel tema in fa maggiore.
Giungiamo così alla battuta 116 in cui ritorna la tonalità di la bemolle maggiore per una sezione centrale che richiama la prima Ballata per il suo ritmo di valzer.
Alla battuta 144 ricompare per poco il secondo tema (questa volta in re bemolle maggiore) per condurci (alla battura 157) ad un episodio in do diesis minore che si fonda su quel frammento meolodico incontrato precedentemente (alla battuta 82) in fa minore. In esso troviamo, mescolati a nervosismo e continuo dinamismo, echi del primo tema ma sarà l'agitazione e il tumulto progressivi a portare ad una sua vera e propria esaltazione e riproposta in forma grandiosa (battuta 213 nella tonalità di impianto).
Una breve coda, che sfrutta il tema dell'episodio centrale, chiude la Ballata in modo sonoro e brillante.

sabato 6 giugno 2009

danza (3)

Lo Schiaccianoci op.71a (1892) è un’opera ironica, gioiosa, fantastica, fiabesca, di grande immediatezza. I brevi movimenti che la compongono presentano però una certa carenza di contenuti importanti dal punto di vita formale e compositivo: sono infatti costituiti da uno o al massimo due temi che vengono semplicemente alternati o ripetuti tra loro con piccole variazioni. Tutta l’accattivante suggestione che da essi deriva è perciò dovuta all’originalità dell’invenzione melodica e alla raffinatezza dell’orchestrazione.
Nella Danza della fata confetto il tema è affidato al suono argentino della celesta, strumento a tastiera basato sulla percussione di piccole piastre di metallo, capace di creare un’atmosfera incantata e vagamente surreale (è come se volesse catapultarci nel mondo dell’infanzia); strumento che Cajkovskij si fece portare da Parigi segretamente, temendo che altri compositori russi gli rubassero l’idea. Dopo l’esposizione del tema vi è un episodio intermedio concluso da una breve cadenza della celesta, a cui seguono la ripresa del tema e la conclusione.

I modelli di Respighi furono inizialmente classici, ma ben presto egli risentì l’influsso dell’impressionismo francese (Debussy), della scuola russa (Rimski-Korsakov) e del tardo romanticismo tedesco (R. Strauss): da questi musicisti apprese la tecnica della strumentazione e il gusto per il colore orchestrale. Sentì forte il bisogno di un legame costante con la tradizione italiana e con gli elementi musicali della nostra cultura popolare: così calò nella sua sensibilità una tematica tipicamente italiana, a volte popolaresca e specificamente romana, a volte risalente al passato della musica strumentale.
Antiche danze ed arie per liuto sono 3 suite di danze composte rispettivamente nel 1917, nel 1923 e nel 1931. Per un lungo periodo della sua attività creatrice, Respighi è accompagnato quindi da queste suites in cui testimonia il suo amore per l’antica musica italiana e la sua aspirazione a farla rivivere in forma moderna. Non si deve fraintendere il titolo dell’opera: la parola “aria” potrebbe condurre su una falsa via poiché alla base di queste composizioni ci sono dei pezzi per liuto del XVI e XVII secolo. Sono pagine festose in cui è possibile rilevare una notevole unità di stile nonostante siano state composte nell’arco di quindici anni. Il linguaggio orchestrale è abile e brillante e le antiche melodie rivivono con freschezza nella moderna strumentazione.

sabato 23 maggio 2009

histoire du soldat

Histoire du soldat rappresenta un tipico esemplare di composizione musicale difficilmente classificabile in un genere specifico, perché è contemporaneamente azione letta, mimata, danzata e suonata.
Composta nel 1918, fu pubblicata nel 1920; il soggetto cui si ispira fu tratto dal mondo delle favole russe, ma in effetti l’argomento e il contenuto riguardavano l’umanità in genere e, in particolare, l’impossibilità dell’uomo di sfuggire al proprio destino.
Stravinskij ne concepì la musica con un spirito più occidentale che russo, utilizzando i più svariati materiali, dal ragtime al tango argentino, al valzer viennese e persino a un corale di Bach.
Gli strumenti che compongono la piccola orchestra sono: un clarinetto, un fagotto, una cornetta, un trombone, un violino, un contrabbasso e le percussioni.
La stesura originale prevedeva la suddivisione del lavoro in due parti, di cui la prima era articolata in tre scene più un’introduzione e la seconda in nove scene.
Una piccola orchestra, formata da sette esecutori, doveva eseguire i brani musicali che accompagnavano la lettura del narratore, mentre sul palcoscenico gli avvenimenti narrati venivano illustrati da azioni mimate e danzate.
Prima parte. Introduzione (marcia del soldato). Un soldato in licenza che sta tornando a casa si ferma per riposare e accordare il suo violino.
Prima scena (il violino del soldato). Mentre sta suonando presso un ruscello entra in scena il diavolo, travestito da vecchietto, che, non visto, si avvicina furtivamente e gli poggia una mano sulla spalla.
Seconda scena (presso il ruscello). Il diavolo chiede al soldato di cedergli il violino in cambio di un libro che gli assicurerà ricchezza e potere, e lo invita a restare con lui tre giorni. I tre giorni, però, diventano tre anni e quando il soldato giunge finalmente a casa nessuno lo riconosce più, nemmeno la madre, mentre la fidanzata è già sposa di un altro. Solo adesso egli comprende il valore del libro: può dargli oro e potere ma non l’amore. Allora si ribella violentemente al diavolo e quest’ultimo riappare sotto le sembianze di una vecchietta che gli riporta il violino. Il soldato riprende il violino e tenta di suonarlo, ma dal violino non escono più suoni.
Terza scena (pastorale). Adirato, il soldato getta con violenza il violino e strappa il libro. L’incanto è spezzato e si ritrova nuovamente povero come prima. Non sapendo cosa fare, decide di avviarsi verso il palazzo del re, il quale ha promesso che chiunque riuscirà a far guarire la figlia malata, la potrà sposare.
Seconda parte. Prima e seconda scena (marcia del soldato; marcia reale). Mentre il soldato è in marcia verso il castello incontra di nuovo il diavolo sotto le spoglie di un damerino, con in mano il violino che era appartenuto al soldato. Dopo averlo sfidato a carte, il soldato fa ubriacare il diavolo e si riprende il violino.
Terza scena (piccolo concerto). Il soldato suona vittorioso sopra il corpo del nemico sconfitto e guarda con ottimismo al suo futuro: con la musica riuscirà a guarire la principessa e a ottenerne la mano.
Quarta scena (tre danze: tango, valzer, ragtime). Nella stanza ove la principessa giace malata, il soldato suona appassionatamente: la fanciulla si alza dal letto e inizia a ballare, ma il diavolo è entrato nella camera e tenta ancora di riprendersi il violino.
Quinta scena (danza del diavolo). Il soldato continua a suonare vorticosamente per costringerlo a ballare. Il ritmo irresistibile della musica non dà tregua al diavolo che balla fino a cadere esausto a terra.
Sesta e settima scena (piccolo corale; canzone del diavolo). Sebbene la vita del soldato sia ormai felice nella reggia, egli decide di recarsi a trovare la madre e chiede alla principessa di accompagnarlo, ma lungo la strada lo attende nuovamente il diavolo che, suonando il violino, lo invita a seguirlo.
Ottava scena (grande corale). La principessa, spaventata, abbraccia il soldato che sembra stordito e dice di non ricordare più quale sia la strada per giungere a casa.
Nona scena (marcia trionfale del diavolo). Il diavolo continua a suonare e la musica attrae irresistibilmente l’infelice soldato che non può più sottrarsi al suo destino. Invano la principessa tenta di trattenerlo: il diavolo trionfante lo trascina via.

«Una delle caratteristiche di quest’opera è la scelta e l’uso singolare degli strumenti. A cominciare dal violino, che è il protagonista musicale della storia». Solitamente «dolce, sentimentale e romantico», «quando esso diventa un oggetto diabolico e agognato dal demonio», acquista tutto un altro carattere. Il violino dell’Histoire du soldat «è la voce di un personaggio tradito. Ed è la voce del linguaggio scelto da Stravinskij per denunciare l’ingiustizia: il linguaggio del sarcasmo. Il sarcasmo di Stravinskij si esercita attraverso un procedimento fondamentale, che potremmo chiamare “deformazione”; in più aspetti: a) la stessa scelta dell’organico strumentale, così inconsueto rispetto agli usi tradizionali; b) la scelta di temi popolareschi, spesso volutamente volgari, come la Marcia reale, ma spezzati e deformati da suoni estranei; c) la continua rottura della quadratura ritmica, ossia la frequente variabilità delle misure (2/4 – 3/4 – 3/8 – 5/8, ecc.) che si sente soprattutto nelle marce e nelle danze, dove l’accentuazione regolare dura poche battute, poi sgarra e imbroglia i passi; d) la mescolanza di linee e di armonie che ingrangono volutamente le regole classiche e costruiscono un’immagine di dilettantesca confusione: a volte è come se ogni strumento andasse per la sua strada» (Delfrati).

venerdì 15 maggio 2009

der fliegende Hollander

Proprio da pochi minuti ho terminato di ascoltare quest'opera (data in prima rappresentazione a Dresda il 2 gennaio 1843) in un'edizione del 2004 trasmessa da otto's opera house (Stensvold, Weber, Selig, Durmuller; Weil).
Mi piace riportare in citazione e in sintesi il commento e la recensione che ne ha fatto Giudici.
Voci né belle né doviziose ... ma sorrette da quel robusto professionalismo che è di casa in Germania e sarebbe tanto bello lo fosse anche da noi, dove il nome spesso sovrasta sulla sostanza. La direzione rivela dinamica e sfumatissima, colori ricchi di contrasti, condotta ritmica quanto più sfrangiata possibile, cura estrema a che l'orchestra canti sempre, sostenendo assai bene le voci - meno soggette a forzare, in contesto siffatto - ma soprattuto integrandosi a esse sul piano espressivo.
Giudizi condivisibili e no però per me che non sono un autentico esperto wagneriano, è interessante scoprire che c'è stata la consuetudine di rappresentare l'opera nella struttura originaria di atto unico (che riflette quella d'una ballata tripartita) con finale privo di trasfigurazione redentrice.
L'edizione in questione è invece eseguita su strumenti originali: l'impiego di corni naturali, la convivenza di trombe con e senza pistoni, l'uso dell'oficleide in luogo della molto più sonora tuba, un drastico ridimensionamento del vibrato ... com'era d'altronde ancora in uso all'epoca di Weber.
Ed effettivamente i colori sono più aspri e ruvidi, più barbarici, ma anche più leggeri e vibratili, creando un'atmosfera decisamente insolita e lasciando un buon gusto nell'orecchio prima di andare a letto.

giovedì 14 maggio 2009

danza (2)

I materiali ritmico-melodici di Papillons op. 2, raccolta di brani composti tra il 1829 e il 1831, provengono in buona parte da Valzer (nn. 2, 3, 7, 8, 9, 10) e da Polacche (nn. 5, 11) rimaste inedite e che discendono per ispirazione dallo stile di Schubert.
La rivisitazione del mondo schubertiano non è però la sola chiave di lettura. Schumann non cercava di aderire completamente alle sorgenti musicali: erano le fonti letterarie per lui ancora più determinanti nella scelta del linguaggio.
Papillons costituisce appunto un’intrusione nel mondo della musica colta di un’ispirazione chiaramente letteraria. Si tratta della pagine conclusive di “L’età ingrata” di Jean Paul Richter. Tre sono i personaggi che figurano nell’epilogo del romanzo: Walt, Vult e Wina. L’avvenimento descritto è un ballo mascherato durante il quale, per accrescere la confusione, Walt e Vult si scambiano il travestimento.
La suite di 12 pezzi preceduti da un’introduzione rappresenta una descrizione del clima cangiante della festa, con le sue musiche e danze frizzanti e il gioco della seduzione.
All’introduzione segue un brano che con il suo tema vuole rappresentare Vult stesso. Walt, impaziente di riabbracciare Wina, lascia la sua stanzetta e scende nel salone dove ha luogo la festa mascherata. Il secondo brano lo descrive mentre attraversa la folla in festa, con un trafelato prestissimo. A questo punto si tratta di descrivere la cornice ambientale della festa e Schumann vi provvede con il turbinante valzer che costituisce il quarto brano. Sul ritmo ondeggiante della danza, appare una suorina, «un’umile monaca con una mezza maschera e un profumato mazzo di primule». Nel quinto brano appare finalmente la protagonista del romanzo, Wina che, essendo polacca, viene descritta con un ritmo di Polonaise. Nel sesto brano ritroviamo il tempo di valzer. La forma è quella del rondò con il tema in re minore (il secondo è il la maggiore, il terzo in fa maggiore). Nel settimo brano, un minuscolo valzer che modula da fa minore verso la bemolle maggiore, è descritta la confessione della propria condizione di innamorato fatta da Vult all’amico. Lo stato d’animo suggerito è quello di «uno strano fervore, com’è quello arido del deserto o quello della febbre». Ma il cuore della frivola Wina è ormai di Walt, che la seduce solleticandole la schiena con un’ala di farfalla: un doppio valzer (primo tema in do diesis minore, secondo in re bemolle maggiore) dal ritmo scandito dipinge la scena. Il nono brano è un Prestissimo, intitolato Rivelazioni. Segue lo scambio delle maschere: valzer con doppia introduzione, sinuoso e amoroso, il cui corso viene bruscamente interrotto da una fanfara su un tema di un valzer precedente (n.8); il valzer riprende dopo l’interruzione e svanisce. L’undicesimo e penultimo brano è il più lungo di tutti. Si tratta ancora di un ritmo di polacca, con una breve introduzione e un episodio centrale più tranquillo. Il Finale, introduce una melodia popolare intitolata “Danza del nonno”. Dopo di che la musica si allontana progressivamente in un millimetrico descrescendo: «Gli schiamazzi della notte di carnevale si spengono – scrive Schumann – e la torre del campanile batte sei rintocchi». Mentre svanisce l’ultimo accordo, risuonano tre note nel registro grave prima che anche l’ultimo nottambulo scompaia nel chiarore del mattino.

venerdì 8 maggio 2009

danza (1)

La danza ha sempre avuto un posto di rilievo nelle corti dell’epoca barocca perché contribuiva alla ricchezza dei cerimoniali, delle feste, degli spettacoli teatrali.
La musica composta per la danza aveva inoltre aspetti di semplicità e regolarità per favorire la realizzazione dei passi previsti.
Differente dalle danze e balli di società, erano le danze di teatro, cioè i balletti, nati nel XVIII secolo quando di verificò la distinzione tra coreografi, compositori e ballerini da una parte e pubblico che assisteva allo spettacolo dall’altra.
Col tempo la musica per danza venne ripresa per brani di musica strumentale, anche al di fuori della funzione di accompagnamento al ballo così che, ben presto anche i compositori si dedicarono a questo approccio definendo una forma musicale specifica: la suite (successione).
In questo caso la danza non ha più la funzione di invitare a ballare né di fare da supporto alle coreografie dei balletti. Si tratta di musica da ascoltare basata su una successione di forme e differenti ritmi di danze stilizzati.
La successione di danze più usata comprende diverse danze, alcune standard, tra cui le seguenti.
La corrente ebbe origine in Italia. Danza vivace di corteggiamento fu molto in voga anche in Francia, ha un vivace ritmo ternario puntato, più rapido nella pratica francese, più grave in quella italiana. (es. courante de la Reine d'Angleterre 1634-1650).
Il minuetto era una danza popolare originaria della Francia. Lully la trasformò con grande successo, alla corte del Re Sole, in un ballo aggraziato, di corteggiamento, con reverenze, giri, mezzi giri, incroci, sguardi, figure a forma di esse. Successivamente, come brano strumentale, entrò a far parte di composizioni più ampie quali sonate, sinfonie, opere. La sua forma è tripartita: minuetto, trio (di andamento più moderato), minuetto. (es. Handel, da Musica sull’acqua, suite n.3, Minuetto 1715-17). Inizia in tonalità minore ed ha la parte centrale nel contrastante modo maggiore. L’organico orchestrale, oltre ai consueti archi e clavicembalo, ha strumenti dal suono acuto e pungente come il flauto piccolo e il flauto traverso.
La sarabanda, probabilmente originaria dell’oriente, era una danza sfrenata e scandalosa che comparve in Spagna nel rinascimento, ma fu poi vietata. In Francia e in Italia si trasformò invece in una danza seria e cerimoniosa che, mantendendo il ritmo ternario, assume un carattere grave e solenne. (es. Corelli, da Concerto grosso op.6 n.11, Sarabanda 1714)
La giga è probabilmente una danza popolare di origine irlandese giunta poi a corte in Inghilterra. Molto brillante e fantasiosa, si ballava a coppia dopo una marcia iniziale, facendo battere i tacchi. Nella suite, per il suo andamento mosso e brillante, è di solito posta a conclusione dell'intera serie di danze. (es. Corelli, da Concerto grosso op.6 n.11, Giga 1714)
La contraddanza è una danza contadina inglese del XVII sec. (country dance), di andamento cadenzato e allegro che si diffuse presto anche in Francia, Italia e Germania. (es. Rameau, da Les Indes Galantes, Contredanse 1735) Vivacissima danza, di netto accento ritmico e di spiccata chiarezza, strutturata secondo lo schema del rondeau, sviluppa dialoghi di grande efficacia timbrica grazie alla presenza dei flautini e degli archi.
Il tambourin, danza in misura binaria con basso che si ripete sempre uguale, fa derivare il nome da uno strumento omonimo: un piccolo tamburo a cassa allungata. (es. Rameau, da Les Indes Galantes, Tambourin I-II 1735) Due brevi tambourin che formano un dittico di irresistibile carica ritmica. La struttura del brano è tripartita e la linea melodica è nervosa e ondulante.

martedì 5 maggio 2009

la gioconda, atto primo

Il primo atto è ambientato nel cortile di palazzo Ducale parato a festa in una Venezia del XVII secolo. La prima scena è imgombra di popolo festante in attesa della regata. Mentre il coro di marinari e il popolo inneggiano, Barnaba (baritono), presso una colonna, osserva e ode i festeggiamenti. Quando poi, nella seconda scena, la popolazione esce di scena, rimasto solo, Baranaba si rivela come la spia del Consiglio dei Dieci ("con lavorio sottile e di mano e d'orecchio colgo i tafani al volo per conto dello Stato"). Nella terza scena entrano Gioconda (soprano) e la madre (contralto). Si parlano con affetto reciproco mentre Barnaba le guarda segretamente desiderando Gioconda ("Sovr'essa stendere la man grifagna! Amarla e coglierla nella mia ragna! Terribil estasi dell'alma mia! Sta in guardia! L'agile farfalla spia!"). Quando Gioconda fa' sedere la madre e si avvia in cerca dell'amato Enzo ("Io vado a ritracciar l'angelo mio"), Barnaba viene preso da un momento di rabbia ("Derision!") e sbarra la strada a Gioconda. Questa, nel respingere la sua offerta d'amore, passa diversi stati d'animo: dal sospetto ("funesta m'è la tua faccia da mistero"), al disprezzo, al ribrezzo, alla paura. Dopo essere fuggita con un grido, la madre si alza smarrita e cerca la figlia. Barnaba la osserva silenzioso immaginando che "quella larva che la man protende" potrebbe essergli di aiuto per tenere "il cor della figlia incatenato". La quarta scena, con il suo gran numero di personaggi e il suo ritmo movimento, ci fa entrare all'interno del malefico progetto di Barnaba: mentre il coro del popolo rientra portando in trionfo il vincitore della regata e beffeggiando lo sconfitto Zuane, la spia capisce che anch'egli può essergli utile nel suo piano. "La vera cagion" della sconfitta di Zuane, così fa credere Barnaba, non è "la prora ... greve ed arrembata" ma una maledizione: "una malia bieca sta sul tuo capo". E mentre il popolo si diletta ancora nei festaggiamenti e nei giochi, Barnaba dirige la rabbia di Zuane sulla cieca che avrebbe scagliato sulla sua barca "un segno maliardo, un magico segno ... parole tremende, lugubri anatemi". Tra lo stupore e l'esclamazione, tutti decidono di scagliarsi contro la povera donna che sta pregando le litanie alla Vergine credendo, invece, che stesse brontolando parole di iettatura: "Addosso! Accoppiamola!". Nel clamore generale, Barnaba si rallegra tra sè per aver creato quella situazione, "scagliato ho il mio ciottolo", e si premura di non subirne danni, "or fuggo la frana", convinto di poter raggiungere il suo scopo, "Ho in man la mia vittima, ho in man due destini". Al grido di tutti "a morte la strega", rientra Gioconda con Enzo che cerca inutilmente di sottrarre la cieca alla furia popolare: "Assassini! Assassini! Quel crin venerando rispettate!". All'inizio della scena quinta entra Alvise (basso), attratto dal tumulto, accusando la plebe di arrogarsi "fra le ducali mure i diritti dela toga e della scure", insieme con la moglie Laura (mezzosoprano) che intercede per la madre di Gioconda: "è cieca! o mio signor! fa ch'essa viva! ... Essa ha un rosario! No, l'inferno non è con quella pia". Nonostante Barnaba insista con Alvise che la cieca è rea di maleficio, Gioconda si getta ai suoi piedi parlando della povertà sua e della madre e Laura riesce a convincere il marito a salvare la donna che, pur non vedendo "di quella santa il volto", in segno di ringraziamento, le dona il suo rosario. Nel frattempo, Enzo e Laura si sono scambiati numerosi sguardi e, dopo che ella ha rivelato il suo nome a Gioconda, Enzo la riconosce e trasale. Quando tutti lasciano la scena per recarsi nella basilica di san Marco, Barnaba, (siamo ormai nella scena sesta) avendo compreso che Enzo non è un marinaio ma un principe genovese proscritto e che ama ancora Laura pur sposata contro la sua volontà con Alvise, approfitta ancora della situazione e lo provoca: "La cantatrice errante ami come sorella, e Laura come amante". Smascherato, Enzo accetta la proposta di Barnaba di incontrasi su un vascello con l'amata e di fuggire: "Badoer questa notte veglia al dogale ostello con Gran Consiglio. Laura sarà al tuo vascello". Ma quando Enzo chiede chi sia il "lugubre benefattor", Barnaba rivela la sua identità e il desiderio di far schiantare il cuore di Gioconda che non corrisponde al suo amore. Per questo Enzo lo maledice e si allontana in attesa di incontrare Laura. Nella scena settima, Barnaba chiama Isepo (tenore) e, senza accorgersi della presenza di Gioconda, gli detta la denuncia da portare al capo dell'Inquisizione: "La tua sposa con Enzo il marinar ... stanotte in mar ti fuggirà sul brigantimo dalmato". L'ultima scena, l'ottava, vede entrare nel cortile un gruppo mascherato che danza una furlana mentre da san Marco giunge il canto di una preghiera. L'atto si chiude con l'angoscia e il tormento di Gioconda, al corrente delle macchinazioni di Barnaba, e con il tentativo di conforto della madre: "vieni e facciamo un sol di due dolor!".

venerdì 1 maggio 2009

la gioconda, danza delle ore

La Danza delle ore è un balletto-intermezzo inserito da Ponchielli nel III atto per creare un intervallo che spezzasse il lungo e complicato intrigo del dramma.
Quattro gruppi di sei ballerine in spumeggianti e vaporosi veli dai tenui colori, cangianti a seconda della luce, simboleggiano le ore del giorno e della notte.
L'introduzione musicale descrive il primo chiarore dell'alba; violini, flauti e arpa accompagnano l'entrata delle ballerine, che scivolano leggere sulla scena.
La luce del giorno diventa sempre più vivida e il clarinetto, unito agli archi, ai campanelli e al triangolo, dà l'avvio ad un grandioso crescendo che culmina con il fragore degli ottoni. E' ormai giorno pieno e le ballerine danzano in costumi luminosi. I violini, sostenuti dagli altri archi e dalle note pizzicate dell'arpa, presentano una famossisima melodia (ricordiamo il film Fantasia!) in cui si alternano anche i legni, i campanelli e il leggero tintinnio del triangolo.
Ora il giorno si avvia al declino, e i violoncelli guidano l'entrata del crepuscolo e della sera.
Dopo un breve dialogo fra arpa e violini, si sentono sei rintocchi dell'orologio: sono le sei del pomeriggio. La musica acquista un carattere più malinconico e il languido canto dei violoncelli è interrotto da brevi e violenti squarci affidati agli ottoni e alle percussioni. La scena è avvolta dalla penombra; solo il triangolo e i campanelli evocano gli ultimi frammenti di luce, i violoncelli e i violini riprendono il canto sommesso che nella quiete notturna diventa quasi un sussurro.
Ma le ore del giorno, messe in disparte da quelle della notte, fremono per poter riavere il predomino; i timpani rullano, gli ottoni sostengono un nuovo crescendo al termine del quale ritorna la quiete e l'orologio batte mezzanotte.
I violini continuano il loro canto quanto, all'improvviso, le trombe annunciano il ritorno irruente delle ore del giorno. Al ritmo del galop, che scatena tutta l'orchestra, le ore gareggiano le une con le altre. Alle fine le ore della luce cacciano indietro la notte e la nuova alba inonda la scena di nuovi colori.

giovedì 30 aprile 2009

la gioconda

Quasi a fare da legame (credo proprio non voluto) con il Gotterdammerung fiorentino trasmesso da radio3, radio crazy opera ha inserito nel suo palinsesto notturno un'edizione storica de La Gioconda di Ponchielli con la Callas (alle prese con la sua prima incisione di un'opera completa), Poggi, Silveri, Barbieri e la direzione di Votto.
Interessante la coincidenza di queste due opere entrambe rappresentate per la prima volta nel 1876. D'altra parte La Gioconda è considerata da alcuni un'opera popolare romantica costruita sui modelli delle opere romantiche straniere tenendo però presente l'esperienza verdiana (rigettata ma imprescindibile). Dal 1855, infatti, con l'andata in scena alla Scala de Il Profeta (e, fino al 1870, del Faust, de L'Ebrea e de La muta di Portici), il pubblico italiano venne a contatto con il grand-opéra francese. Nel 1871, poi, con la prima bolognese del Lohengrin, e nel 1872 con la prima scaligera de Il franco cacciatore, venne inaugurata in Italia anche la stagione dell'opera romantica tedesca e wagneriana in particolare.
Mettendo insieme l'entrata in scena delle sensibilità francesi e tedesche (non solo in campo operistico ma anche sinfonico) con alcune irrequitezze e insoddisfazioni diffuse nel clima musicale italiano (testimoniate anche dagli ultimi esiti verdiani), non c'è da meravigliarsi che in alcuni musicisti e librettisti fosse vivo il desiderio di un rinnovamento del melodramma.
Proprio a Milano, il centro musicale che più viveva le contraddizioni in ambito operistico, vennero alla luce I Lituani (opera di Ponchielli su libretto di Ghislanzoni commissionata da Giulio Ricordi, che, pur scomparsa dagli attuali cartelloni, fu ben accolta nel 1874). Fu così che a Ponchielli si aprì la strada del successo che lo portò ad impegnari in un nuovo libretto (quello per La Gioconda, appunto) proveniente dall'ambiente della scapigliatura milanese e steso da Arrigo Boito nascosto nello pseudonimo Tobia Gorrio.
A testimonianza della temperie vissuta in quegli anni (incorniciati, ad esempio dalle rappresentazioni di Aida nel 1872 e di Otello nel 1887), parlano da sole le lettere scritte dallo stesso Ponchielli che, da una parte ebbe modo di constatare il crescente favore per le nuove tendenze, dall'altra esprime i suoi forti dubbi sul gradimento della nuova opera da parte del pubblico (sottolineando, in particolari, certi aspetti del libretto in alcuni punti piuttosto truculenti): L'altra sera al Rigoletto un certo tale di difficile contentatura disse che la cavatina del Rigoletto è una boiada e la cabaletta con baritono del primo duetto: cosa che non va più! Ma cosa deve andare adesso? - Leggo e rileggo i due atti di Boito, che trovo bellissimi, ma temo che la musica corrisponda alla difficoltà del libretto, e cioè di riuscita difficile e di genere non facile. Allora io domando a me stesso: E il pubblico? Io credo che per il pubblico italiano occorra di non accarezzare troppo il dramma, altrimenti bisogna cadere nei ritmi che non colpiscono l'orecchio, bisogna adoperare l'orchestra e, in ultimo, richiedonsi artisti che non abbiamo e che forse anche all'epoca di Rossini, di Bellini, ecc., ben pochi ce ne saranno stati. In un melodramma il pubblico vuol sentire la musica, la melodia; invece qui l'elemento principale è il parlato.

sabato 25 aprile 2009

teatro nel teatro: il maestro di cappella

Intermezzo giocoso per basso e orchestra di Domenico Cimarosa (1749-1801).
L'intermezzo è una farsa in musica, spesso in due parti, che si rappresentava nel Settecento fra un atto e l'altro di un'opera seria.
Della composizione di Cimarosa non si conoscono con precisione nè il nome del librettista, nè l'anno in cui venne scritta (forse il 1790).
L'argomento tratta di un maestro di cappella alle prese con la sua orchestra mentre sta preparando due arie di diverso carattere: una più brillante e vivace, l'altra più lenta ed elegante.
Il maestro dialoga con gli strumenti indicando loro le melodie da eseguire, correggendone gli errori e complimentandosi per le frasi ben riuscite.
Cimarosa ne dipinge il carattere con estrema comicità: un maestro un po' vecchiotto, vanitoso e irascibile, che imita i vari strumenti con la voce, inveisce e si dispera contro chi non gli presta attenzione.

Se mi danno il permesso, un'aria canterò; non sono, no, di quelli che si fanno pregare e ripregare.
Sono di quei pochi che della scuola antica ci son restati.
Ah, dove son andati quei celebri maestri che sapevano tanto?
Canterò dunque un'aria giacché tutti a sentirmi pronti qui vedo; ma stiano bene attenti che un'aria canterò di stil sublime, che fece apposta col suo gusto fino il cavalier Scarlatti al Laterino.
Oboe, corni e violette avranno ben a fare.
Violoncello, violini e contrabbaso a suo tempo faran maggior fracasso. Attenti, o miei signori, con arco ben tenuto,voi dovrete eseguir quel che dirò.
Quest'è il passo dei violini: lai, lai, lai, la.
Cosa fate, oboe mio caro? bio, bio, bio, bio. S'incominci ancor il passo!
Maledetto contrabbasso, cosa diavol qui si fa?
Quest'è il passo dei violini: lai, lai, lai, la.
Blaberlebla berlebla berlebla. Oh, vi prego, deh, badate e imparate a ben contar, altrimenti non si va.
Quest'è il passo dei violini: lai, lai, lai, la.
Le violette non ancora!
Zitto il flauto non ancora! Ma che diavol qui si fa?
Maledetto contrabbasso! Cosa diavol qui si fa? Qui si manca d'attenzione, no, cosi, così non va. Vi scongiuro in ginocchione, ah, badate in carità.
Senza scaldarsi il sangue, e per principio, badate a quel che dico: nessun cominci il passo se pria da me nol senta! Pensate ch'io non sono qui per farvi il buffone!
Quest'è il passo dei violini: lai, lai, lai, la. Oh, bravissimi! Va bene.
Quest'è quel delle violette: la, la, la, la. Brave assai, o benedette!
L'oboe così farà: la, la, la, la,bio, bio, bio, bio. Molto bene in verità.
Or i corni vanno assieme: la, la, la, labla berlebla berlebla berlebla. Son contento, vanno bene: or adesso unitamente, via, sentiamo come andrà. Bravi! Bene! Bravi assai! Queste note a punta d'arco, qui staccate, qui legate.
L'oboe solo. Le violette! Flauto solo! Presto i corni! Qui fortissimo! Cosè! Oh, che armonico fracasso! Oh, che orchestra benedetta! Io mi sento consolar. Queste note a punta d'arco! I violini e le violette! Le violette con i corni! I violini, il flauto solo! Oboi, corni con il flauto! I violini! Bravi!Flauto solo! Bene! Le violette! Bravi! Oboe e flauto! Bravi! Presto i corni! Bene! Bravi! Bene! Bravi assai! Oh, che armonico fracasso! Oh, che orchestra benedetta! Io mi sento consolar! Bravi! Bravissimi! Così va bene! Son contento dell'assieme che tiene ciascheduno facendo la sua parte. Perciò, e non vi spiace, bramo provar un pezzo di stil affatto nuovo. Voltate ora le carte e s'incominci un cantabile Allegro; cioè di due colori, come una salsa che ha vieppiù sapori. I piani e i forti vi prego d'osservare.
Il contrabbasso non dia quelle strappate che fan cattivo effetto nell'armonia .
Violette e violoncello s'accordin ben assieme nel passaggio che ho fatto. S'incominci la battuta con forza e calore, s'incominci il gran morceau con strepito e vigore. Ci sposeremo fra suoni e canti, sposi brillanti pieni d'amor.
Voglio i violini.
Voglio il violone.
Voglio il fagotto con l'oboe.
No! No! No! No! Questo strumento non fa per me.
Orsù il flauto colla viola. Tutta l'orchestra s'ha da suonar. No, che di meglio si può trovar. Ci sposeremo fra suoni e canti sposi brillanti pieni d'amor.
Voglio i violini!
Voglio il violone.
Voglio il fagotto coll'oboe.
No, no, no, no, questo strumento non fa per me.
Voglio i violini.
Voglio il violone.
Le violette!
Ed ora il flauto!
Or, il fagotto coll'oboe.
No, no, no, no, questo strumento non fa per me. Tutta l'orchestra s'ha da suonar. No, che di megliosi può trovar. S'ha da suonar, s'ha da suonar, s'ha da suon...

Vi ringrario, miei signori; proveremo ad altro tempo un Andante, Allegro e Presto, che faravvi stupefar. Un Cantabile con moto, un Larghetto, un Andantino, che un talento sopraffino non potrà giammai imitar.

venerdì 24 aprile 2009

polocca op.53

E' sicuramente fra le più belle e famose composizioni pianistiche di Chopin (che voglia di suonarla negli anni di studio!).
Nonostante l'ambiente parigino l'avesse accolto con calore e ammirazione, egli rimase per tutta la vita profondamente legato alla sua terra d'origine: le sedici Polacche ne sono una testimonianza molto eloquente e che occupa un posto rilevante nella produzione del compositore. Vengono spesso lette come affreschi nazionalistici, carichi di accenti epici e battaglieri, in cui riaffiora il ricordo della patria oppressa.
La Polacca op.53, chiamata anche Eroica, fu composta nel 1842 a Parigi.
La Polacca è una danza popolare in ritmo ternario eseguita a coppie, con un andamento moderato e un incedere di tipo quasi processionale tanto che fu poi importata e trasposta dalla nobilità facendola diventare un'austera e solenne danza di corte.
Senza andare troppo lontano, il nome stesso evoca il paese nativo di questo genere musicale in cui era già conosciuto nel 1500; dalla Polonia, poi, si diffuse in tutta Europa diventando una forma della musica cosiddetta "colta".
La struttura della Polacca op.53 possiede una netta articolazione a blocchi separati con una frequente ripetizione dei temi. Ma su questa struttura standard Chopin inserisce una novità: dopo l'esposizione della prima e della seconda idea viene inserito un terzo tema nuovo e di carattere contrastante, quasi per allentare la tensione e meglio preparare il ritorno del tema iniziale (evitando, peraltro, la continuità del tenore epico per non generare monotonia).
La prima parte inizia con un'introduzione di sedici battute che, con l'alternanza continua di due idee opposte (l'una di movimento ascendente, l'altra di stasi basata su arpeggi), crea un'ascesa tonale e un crescendo sonoro che esplode sul tema eroico vero e proprio che si appoggia su un movimento uniforme e scattante di ottave al basso.
Il canto epico della seconda sezione (siamo alla battuta 81) è introdotto da fortissimi accordi di esortazione (ma anche un po' di ammonizione) e poggia su un ostinato ritmico martellante ottenuto con un breve inciso di note discendenti ripetuto per una quarantina di volte; il tutto si accompagna ad un vigorosos crescendo (rossiniano?!) di fremente esaltazione.
A proposito di questa sezione, spesso pista per le gare di velocità dei pianisti-corridori, un allievo di Chopin ricorda che il crescendo non dovrebbe iniziare prima di una dozzina di battute (quando si giunge alla modulazione in re diesis maggiore) per mantenere il carattere nervoso ed eroico insieme.
Totalmente diverso è invece il tema che compare alla battuta 149 e che attenua l'affannosa tensione precedente perchè si distende in un canto lirico colmo di echi nostalgici.
Da ammirare il geniale procedimento tonale usato da Chopin per il ritorno del tema principale: la conclusione, infatti, presenta una riaffermazione più energica e travolgente, rinnovata e più fulgida del tema iniziale, ora in forma accorciata, e nella coda finale si scatena tutta l'irruenza del brano che termina con una breve serie di accordi risolutivi in scampanio di giubilo.

sabato 18 aprile 2009

la notte (4)

Nell’opera di Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate, la notte è vista come un momento di intrighi, di magie, di fate e di folletti che tramano scherzi. Mendelssohn (1809-1847) compose nel 1843 delle musiche ispirate a quest’opera teatrale: Sogno di una notte di mezza estate op.61.
L’allegro appassionato si trova alla conclusione del secondo atto e introduce i personaggi del terzo. La sua forma è bipartita. Fin dalle prime battute ascoltiamo i fremiti dell’orchestra che simulano il brulicare di personaggi fantastici nel bosco, che tramano scherzi e malefici, burlandosi di tutti. Il fremito è realizzato dagli strumenti ad arco che suonano rapide note ribattute, creando una specie di tappeto sonoro sul quale emergono gli strumenti a fiato; la melodia è costituita da piccoli frammenti musicali eseguiti dai legni (flauti, oboi, clarinetti) e dai violini: ne risulta un effetto timbrico estremamente vario e cangiante. Il fraseggio della musica in questa prima parte risulta inquieto e ansimante ma ad un certo punto il brusio creato dagli archi cessa per poi riprendere in concomitanza con una melodia calda e intensa affidata ai violoncelli e ai fagotti. La prima parte si chiude smaterializzando gli elementi musicali: a poco a poco cessano prima il fremito degli archi, poi il frammento melodico dei fiati che si disintegrerà in un pulviscolo di note evanescenti. La seconda parte coincide con l’entrata in scena di strani personaggi: sei rustici artigiani un po’ ridicoli che richiamano un ambiente campagnolo: per questo la melodia che accompagna il loro ingresso ricorda quella delle cornamuse ed è affidata a due fagotti. In seguito gli altri strumenti dell’orchestra si sommano gradualmente ai precedenti creando un crescendo di intensità.

Questo breve percorso nei meandri musicali della notte potrebbe ben concludersi con il finale del Concerto op.10 n.2 di Vivaldi: un Allegro, un brano notevolmente elaborato, di grande effetto strumentale e ritmico, che sembra annunciare l’arrivo dell’alba tramite anche la sua introduzione che fa proprio attendere l’arrivo del tema che sembra tardare, come l’alba dopo una lunga notte passata magari al chiaro di luna o sprofondati in un sonno riempito dalla presenza di personaggi fantastici.

venerdì 17 aprile 2009

la notte (3)

La Sonata in do diesis minore op.27 n.2 di Beethoven (1770-1827) è nota con il titolo Chiaro di luna. Ma titoli romantici come questo vennero di rado apposti dall’autore (mi viene in mente anche La Tempesta). Questa denominazione, infatti, fu coniata dal poeta Ludwig Rellstab il quale dichiarò che questa sonata evocava a lui una passeggiata notturna “al lume di luna” sul lago dei Quattro Cantoni. Prima di allora, questa sonata fu soprannominata dai contemporanei di Beethoven come “sonata della pergola” nella convinzione che l’autore l’avesse ideata all’ombra di un pergolato. Secondo altri, invece, che dichiarano di aver ricevuto le confidenze di Beethoven, il celebre primo movimento sarebbe stato improvvisato presso il catafalco di un amico e risulterebbe dunque una marcia funebre.
L’Adagio sostenuto porta l’indicazione “sempre pianissimo” di pugno dell’autore. Dai registri gravi del pianoforte, in modo quasi mormorante, prende vita la risonanza austera e grandiosa che fornisce il controcanto alla melodia. Questa fiorisce dolcemente alla quinta battuta, e canta sull’accompagnamento che ha un suono dalla rassicurante ciclicità. La pagina poi si svolge con andamento fluido e continuo tanto da dare l’impressione che il tempo venga abolito (effetto infrequente all’epoca). La natura malinconica del brano cresce man mano che esso progredisce, come se l’autore volesse lasciar trasparire le sue incertezze esistenziali. Così suona anche l’epilogo, con il suo accompagnamento che svanisce nelle ottave basse dello strumento dalle quali era nato.

Anche Debussy (1862-1918), ispirandosi alle poesie di Paul Verlaine, decise di comporre una pagina intitolata Chiaro di luna all’interno della meravigliosa Suite bergamasque. È un andante molto espressivo, pagina sognante dall’inizio esitante; il canto ha un profilo spezzato, non ben definito. È la stessa luce naturale che rischiarava la Sonata di Beethoven ed è sempre una luce in contrasto con quella piena e calda del sole; ma non è strano pensare che siano situazioni abbastanza diverse quelle che si svolgono alla luce della stessa luna. Prima eravamo quasi avvolti ed abbracciati (sensazione dovuta anche al tipo figurazioni utilizzate) da raggi seppur flebili, ora invece, all’interno di figurazioni spesso frammentate, sembra proprio di rimpiangere quel calore e quella pienezza di luce che sono proprie del giorno.

giovedì 16 aprile 2009

la notte (2)

Quattro movimenti formano la Piccola Musica Notturna K 525 per archi, ultimata il 10 agosto 1787 da Mozart (1756-1792). Il primo è un Allegro in sol maggiore divenuto a dir poco celeberrimo.
Il primo tema di questo Allegro risulta dalla giustapposizione di tre frasi con tre diversi motivi: un’introduzione chiara e decisa; un primo motivo gioioso e fresco; un secondo discorsivo, grazioso e un po’ cerimonioso; un terzo più vivace, di chiusura.
Dopo la transizione, si arriva al secondo tema, in re maggiore, che prende uno spazio assai maggiore. La prima sezione presenta un motivo tematico molto caratteristico, che ci contrappone con la sua dolcezza alla grinta del primo tema; la seconda contiene un nuovo motivo tematico che vede l’aggiungersi di tutti gli strumenti nella seconda parte. Questa sezione viene ripetuta identica e ad essa segue la conclusione.
Viene da chiedersi: ma questa è musica notturna come lo è il Notturno di Chopin o il Concerto di Vivaldi? Mozart stesso lo attesta. Notturna certamente allora, però non senza luce: non c’è buio in questo brano (come anche negli altri tempi della Serenata). Forse allora siamo in una notte rischiarata dalla luce naturale della luna? Non pare, però, perché la notte lunare è, direi per definizione, calma e quieta, incantata e trasognata. Questa musica, invece, è vivace, briosa, talvolta sospirosa. Notte con luce artificiale, allora? Forse.
Serenata deriva da sera. Il titolo ci aiuta a capire qualcosa di più sul carattere di questa musica: musica nella notte illuminata dalla luce artificiale. La luce delle candele nelle tiepidi notti estive durante le quali si svolgevano nei parchi aristocratici e nei giardini borghesi le feste a cui la musica dava giocondità. Questa serenata fu composta per una circostanza a noi non nota ma sicuramente festosa. Forse l’ignoto committente non doveva essere di alto lignaggio perché una serenata scritta originariamente per cinque archi o fiati era proprio il minimo che si potesse decentemente avere per una festa. E la natura della musica è tale che un coreografo non faticherebbe a sfruttarla per un balletto. Allora è più chiaro il carattere di questa musica, la sua destinazione sociale, e anche la ragione di tutti i ritornelli disseminati nei quattro tempi, che ci sono perché si riascolta volentieri ciò che viene creato per essere gradevole, spiritoso e da ascoltare mentre si possono scambiare liberamente quattro chiacchiere.

mercoledì 15 aprile 2009

la notte (1)

La notte è il regno dei sogni, dell’ombra e del mistero e, proprio per questo, ha sempre attratto e affascinato tutti gli artisti.
Il XIX secolo ebbe molto riguardo e sensibilità per il fascino suscitato dalla notte. Forse proprio in contrasto con il secolo precedente, definito “era dei Lumi”, la cosiddetta “era romantica” amò più l’ombra che la luce, più l’inconscio che il conscio, più la logica del sogno che la progettualità razionale. La musica dell’Ottocento è infatti ricchissima di pagine che cantano il fascino della notte: basta pensare ai nomi di alcuni generi e composizioni come Notturni, Berceuses, e Barcarole.
Proprio dalla notte prende nome il genere musicale Notturno, nato all’inizio del 1800 in Irlanda con John Field. A lui è debitore Chopin (1810-1849) che di notturni ne compose una trentina. Tra di essi ve ne è uno, giovanile ma con un alto numero d’opus, che riprende in modo piuttosto evidente alcuni tratti dello stile di Field. Si tratta del Notturno op.72 in mi minore, risalente al 1827, che si caratterizza per un accompagnamento costante per terzine di crome (utilizzate spesso proprio dal maestro irlandese) e per la presenza evidente di due temi: il primo dolce e carezzevole, il secondo pieno di slancio.

Non mancano però riferimenti alla notte anche nei secoli precedenti. Basta pensare al Concerto n. 2 in sol minore op.10 per flauto e archi di Vivaldi (1678-1841).
Il primo tempo, un Largo, può essere a ragione letto come un esempio di “notturno barocco”. Il secondo tempo, Presto-Fantasmi, è un brano dagli accenti drammatici e assai mobili (che tuttavia poco e niente hanno a che fare con la drammaticità romantica) che vuole rappresentare gli incubi notturni di un dormiente ma che (forse anche come suggerisce il sottotitolo), è più adatto a descrivere, già a partire dalla sensazione di sorpresa iniziale, non tanto la paura quanto i giochi e divertimenti di piccoli fantasiosi spettri. Il terzo tempo, Largo-Il sonno, parte creando la situazione di un vero e proprio rilassamento da cui sorge poi una tenue melodia che vuole continuare a rappresentare la tranquillità e la dolcezza ma, al tempo stesso, tramite le armonie e gli effetti continuamente cangianti, anche il senso di sospensione e di immobilità generato dal sonno.

martedì 14 aprile 2009

la moldava

I poemi sinfonici raggruppati sotto il titolo La mia patria, descrivono paesaggi e leggende della terra di Bedrich Smetana (1824-1884). Al suo interno troviamo la celebre La Moldava che descrive il percorso del fiume omonimo che scorre tra il paesaggio, la gente e i monumenti della terra d’origine del compositore. All’inizio della partitura originale, il compositore fornisce una sintesi del percorso del fiume: all’ombra della foresta ceca troviamo due sorgenti, una calda e una fredda; dalla loro fusione scaturisce il fiume che, ingrossandosi progressivamente, attraversa boschi, dove riecheggiano battute di caccia, e un villaggio, da cui provengono canti e danze di una festa nuziale. Il corso d’acqua poi attraversa il misterioso mondo notturno al chiaro di luna e improvvisamente viene scosso e agitato dalle rapide di san Giovanni. Ormai ampio e maestoso, il fiume raggiunge Praga, dove saluta l’antico castello di Vyšehrad, per poi allontanarsi nella pianura boema.
Le sorgenti della Moldava. Il motivo delle sorgenti della Moldava è realizzato all’inizio da rapide figurazioni melodiche di due flauti, alternati al pizzicato degli strumenti ad arco. Le figurazioni, prima frammentarie, divengono continue e sono rinforzate dal timbro liquido dei clarinetti; poi il motivo passa agli archi, poco prima che venga enunciato il celebre tema della Moldava. In questa prima parte il tema torna quattro volte.
Caccia nel bosco. L’immaginaria scena di caccia, alla quale assiste il fiume scorrendo nel bosco, è annunciata improvvisamente dallo squillo delle trombe e dal riecheggiare di strumenti usati fin dall’antichità durante la caccia: i corni. A poco a poco il clima si raffredda grazie ad un veloce diminuendo.
Festa nuziale nel villaggio. Il fiume attraversa poi la pianura boema e giunge a un villaggio nel quale sono in corso i festeggiamenti per le nozze di due contadini: fresco e spensierato si leva il motivo di una danza simile alla polka. Durante la danza si sente anche il suono di uno strumento a percussione. Il motivo della danza diminuisce gradualmente d’intensità e diviene frammentario fino ad interrompersi.
Chiaro di luna. Improvvisamente alcuni strumenti a fiato emettono suoni prolungati che introducono in un clima misterioso e sognante. Mentre flauti e clarinetti riprendono un disegno melodico simile a quello dell’inizio, l’arpa suggerisce l’immagine del delicato movimento del fiume. La melodia dolce che caratterizza questa sezione è affidata ai violini. Sembra di assistere allo scintillio pallido della luna che si riflette sulla superficie dell’acqua. L’alba è preannunciata dal riecheggiare a distanza dei corni, che precedono di poco la ripetizione del tema della Moldava.
Rapide di san Giovanni. All’improvviso il tema del fiume viene violentemente interrotto da un rullo di timpani e da tutta l’orchestra. Il fiume ha raggiunto le rapide di san Giovanni e si agita in gorghi vorticosi. Il discorso musicale è improvvisamente tumultuoso e fremente. Vengono esplorati tutti i registri e le risorse dell’orchestra: ascoltando attentamente si sente emergere l’acutissimo fischio dell’ottavino alternato alle profonde voragini aperte dal suono dei tromboni. Oltre ai timpani è particolarmente evidente il suono di un altro strumento a percussione: i piatti. Una cascata conclude le rapide, come descritto dagli strumenti dell’orchestra che precipitano nel registro grave con scale discendenti.
La Moldava nel suo corso largo. Il fiume ha ormai raggiunto vaste dimensioni e perciò l’intera orchestra esegue il tema principale della Moldava; l’incedere risoluto e gioioso del fiume verso Praga è evidenziato dalla tonalità maggiore, mentre la sua maestosa grandezza è sottolineata dalla massiccia presenza degli ottoni.
Il castello di Vyšehrad. Attraversando Praga, il fiume rende omaggio a questo antico castello accennando all’inno nazionale. Il compositore sembra assistere al passaggio del fiume proprio dall’alto del castello e lo vede allontanarsi a perdita d’occhio fra le campagne boeme: un ampio arpeggio, che scorre fra i vari registri degli archi, viene suonato a poco a poco in diminuendo e rallentando. Come per effetto di una dissolvenza cinematografica, il corso del fiume si dilegua in lontananza. Concludono il poema due violenti accordi dell’orchestra.

lunedì 23 marzo 2009

guglielmo tell, sinfonia

Siamo nel XIV secolo, in Svizzera. Il paese, oppresso dagli austriaci, è sotto la tirannia del governatore Gessler e alcuni uomini, tra i quali il prode Guglielmo Tell, cominciano a tramare la ribellione. In un giorno di festa, Tell, insieme al figlio dodicenne Jenny, si rifiuta di rendere omaggio al governatore e viene trascinato davanti a Gessler. Questi gli offre la libertà a patto che colpisca con una freccia una mela sul capo del figlio. Tell supera la prova, ma gli cade per terra una seconda freccia che aveva nascosto nella giacca. Interrogato, rivela che era destinata a lui se il figlio non fosse sopravvissuto. Furibondo, il tiranno lo fa arrestare e lo condanna a morte. Mentre viene condotto dalle guardie in prigione – un castello circondato dalle acque – si scatena una violenta tempesta. Approfittando della confusione, Tell riesce a liberarsi e trafigge il tiranno. Sopraggiungono gli altri svizzeri e in breve hanno la meglio sugli austriaci.
La Sinfonia è una bellissima pagina sinfonica suddivisa in quattro sezioni con un carattere chiaramente programmatico: esprime, infatti, sinteticamente ma con vivacità tutti i punti essenziali della vicenda (non utilizzando il materiale musicale che verrà proposto in seguito, ma presentando tutti gli accenti espressivi dell’opera: patriottici, sentimentali, paesaggistici…).
Inizia con uno struggente Andante cantabile per 5 violoncelli che evoca il sorgere del sole sulle Alpi e l’accorata preghiera del popolo oppresso che chiede aiuto e conforto a Dio.
La realistica tempesta (Allegro) che segue simboleggia i sentimenti di rivolta degli svizzeri. Musicalmente, l’episodio inizia con i legni che imitano i primi grossi goccioloni di pioggia; intervengono poi i violini, in pp, come folate di vento che man mano prendono consistenza; infine, con uno strepitoso crescendo, si scatena veementemente tutta l’orchestra che non fa mancare tuoni e lampi al suono dei tromboni e timpani. L’acquazzone lentamente si placa, torna la calma e anche gli ultimi goccioloni svaniscono.
L’incantevole paesaggio agreste (Andantino) in cui si svolge la drammatica vicenda, è reso musicalmente dal corno inglese che esegue un dolce motivo pastorale e bucolico. A questo suono si sovrappongono le svolazzanti e gioiose note di un flauto che sembra proprio imitare, con le sue fioriture virtuosistiche, il canto di un usignolo.
Squilli di trombe e di corni annunciano la vittoria. Gli svizzeri sono insorti e hanno scacciato gli oppressori. Questa coda finale è una pagina celeberrima (forse anche troppo perché finisce dappertutto, dalle pubblicità alle suonerie!) e lo è a buon motivo: la musica è trascinante, travolgente e incalzante nel suo galoppare da cavalcata finale (Allegro vivace) in cui c’è tutta l’esultanza della gente che ha ritrovato la libertà.

lunedì 16 marzo 2009

ballata op.38

Quando i manuali parlano del romanticismo, capita di leggere che era tipico di quel periodo procedere per contrapposizioni e contrasti molto forti. Quando i manuali parlano di qualsiasi cosa, lo fanno in genere in modo un po' riduttivo.
Ma l'ascolto della seconda Ballata di Chopin sembra proprio convalidare questa descrizione (o forse è il contrario...).
Come al solito nelle Ballate, viene utilizzata una forma bi-tematica senza però alludere ai temi della forma-sonata, ma qui i due elementi sono veramente di carattere antitetico: il primo è meravigliosamente cullante, dolcissimo e sognante; il secondo possiede un'irruenza che fa saltare sulla sedia se si pensa che si inserisce alla fine della prima parte senza nessuna pausa ma facendo subentrare una raffica di note in ff dopo un delicatissimo accordo in smorzando.
La prima sezione in fa maggiore, dunque, potrebbe a ragione essere definita una "pastorale" (in 6/8). L'idea è sostanzialmente una e si muove sottovoce su poche note, in un ambito molto ristretto e intimo; viene svolta più volte in ripetizione con qualche modifica creando, grazie all'uso del pedale, un'atmosfera di pace e di serenità.
La seconda sezione ci fa conoscere il suo carattere già dall'indicazione presto con fuoco: scoppia all'improvviso con tutta la sua violenza e drammaticità e si costituisce da sestine continue che, a differenza del primo tema, percorrono tutta la tastiera quasi a cercare una possibile sosta all'agitazione che le pervade. Sarà verso la battuta 61 che si verifica un cambiamento: a partire dal piano, con un accellerando che in sette battute riporta al fortissimo, le sestine cessano e si raggruppano (per così dire) in accordi pieni e accentati che nel ritmo richiamano un po' la prima sezione ma che hanno la parvenza di tanti punti interrogativi che portano sempre più in alto alla ricerca di uno sfogo sempre maggiore.
Ma è da questa parte finale della seconda sezione che, in modo indolore, sgorga nuovamente il primo tema in fa maggiore (anche questa volta senza pausa ma anche senza il contrasto dinamico).
Non si tratta però di una semplice ripetizione: questa volta il tema pastorale, dopo poche battute, si modifica, subisce una mutazione che prende il via da un accordo di nona di dominante di re bemolle maggiore. Il carattere è ora diverso grazie all'artificio armonico e modulatorio che Chopin realizza: sempre pastorale e dolce, il tema acquista anche una venatura di tenerezza e quasi mestizia tanto che riesce, tra crescendo e diminuendo, tra accellerando e ritenendo, tra snellimento del suono e sua intensificazione, a portare alla ripresa del presto con fuoco.
Anche questa sezione riappare invariata nel sentimento ma con una mutazione finale che, dopo quattro doppi trilli, conduce all'appassionata e travolgente coda finale indicata agitato (ma non è certo l'unico momento della Ballata in cui proviamo questa emozione).
La coda è tradizionalmente non tematica e sfrutta come sempre il virtuosismo. Nella grande confusione (in senso positivo, ovviamente) creatasi da questa ultima sezione, la melodia va ad infrangersi su un accordo dissonante e sforzatissimo, cui segue una pausa con corona dalla quale riemerge il tema iniziale. Riemerge però mutato nell'intimo perchè lo troviamo nella tonalità di la minore (quella della seconda sezione): poche battute che si spengono in un piano che porta al silenzio.
E' un caso abbastanza raro quello di iniziare un pezzo in tonalità maggiore e chiuderlo in minore; mi viene in mente il secondo improvviso op.90 di Schubert. Sarebbe interessante riflettere sul motivo di queste scelte.

martedì 10 marzo 2009

melodramma (1)

Impossibile sintetizzare le origini di un genere musicale in poche parole (anche perchè spesso gli inizi non sono mai chiari), tanto meno lo è farlo relativamente all'opera lirica i cui primi passi sono tuttora molto discussi. Comunque questa sintesi, un po' scolastica e senza troppe pretese, può richiamare alla mente alcuni passaggi effettivamente importanti per questo genere.
Quello dell’opera (anche se il termine non è perfettamente adeguato), intatti, non è un genere antico che risale alla fine del XVI secolo, quando alcuni artisti che si riunivano presso il conte Giovanni Bardi di Firenze, ispirati dalla tragedia greca, crearono una nuova forma di spettacolo in cui erano presenti, insieme e per la prima volta, poesia, azione teatrale e musica. Nacque così il melodramma (“dramma in musica”) in cui i personaggi di una vicenda si esprimono mediante il canto.
Gli ingredienti del melodramma sono allora: il libretto, la scenografia, la musica.
Il libretto, cioè la trama dell’opera scritta in versi dal poeta in collaborazione con il compositore, si suddivide in atti e ogni atto in più scene. Nel libretto sono annotate anche le indicazioni per lo svolgimento dell’azione teatrale: entrate e uscite di scena dei personaggi, loro comportamento sulla scena, cambi di arredamento, ecc.
La scenografia, cioè la cura dei costumi, trucchi, arredi, movimenti sulla scena, crea la giusta ambientazione alla rappresentazione teatrale e fa sembrare reale ciò che è pura finzione; a poco a poco nei libretti dell’epoca barocca si comincerò a dare spazio alla ricerca del meraviglioso e degli effetti spettacolari, arricchendo il melodramma di scenografie e costumi appariscenti, congegni meccanici per realizzare effetti speciali (tuoni, terremoti, pioggia, ecc.).
La musica ha ovviamente un ruolo fondamentale, perché costantemente presente. Il musicista mette il libretto in musica, scrivendo sia le parti per i cantanti, sia quelle per gli strumentisti. Nell’opera musicale si alternano: a) episodi strumentali, b) canto solistico, concertati, cori, c) danze.
Probabilmente, il primo esempio di quello che oggi chiamiamo “opera lirica” è un lavoro di Jacopo Peri (1561-1633), Euridice, che mise in scena nel 1600, in collaborazione con il librettista Ottavio Rinuccini, un dramma ispirato alla vicenda mitologica di Orfeo ed Euridice, proponendone però un finale lieto, come omaggio a Maria de’ Medici all’interno dei festeggiamenti per il suo matrimonio. Le è contemporanea un'altra Euridice, quella di Giulio Caccini, altro musicista della cerchia fiorentina che peraltro aveva collaborato alle musiche dell'opera di Peri, che però pare ci sia giunta incompleta. Ma questo non è un problema perchè le ricerche, gli studi e i completameni non sono mai mancati nella storia della musica e, quindi, credo che sia da poco uscita una nuova versione integrale in cd.
Se da Firenze ci spostiamo a Venezia, incappiamo in quello che molti definiscono il momento veramente iniziale del genere operistico: nel 1637 fu inaugurato il primo edificio pubblico destinato al melodramma, il teatro san Cassiano.
In questo modo, il melodramma, da spettacolo riservato a corti nobili o circoli culturali, si rivolge ad un pubblico più vasto (e pagante) e si tramuta in vero e proprio “affare” alla cui cima sta l’impresario che lo organizzava, scritturava i cantanti e gli strumentisti (che nel frattempo si erano radunati in piccole compagnie itineranti), commissionava il libretto al poeta e la partitura al musicista. Con il ricavato dei biglietti pagava quindi tutti costoro, guadagnando ciò che avanzava. Fu così che venne messo in risalto sempre più il ruolo dei veri protagonisti, i cantanti dai quali dipendeva di fatto il successo o l’insuccesso della rappresentazione.
Il pubblico dei teatri barocchi non era come quello dei teatri moderni, ridotto di numero ma silenzioso e generalmente concentrato: passava invece il tempo facendo salotto, discorrendo e mangiando soprattutto durante i recitativi (le parti cantate molto vicino al parlato che facevano andare avanti la vicenda) e le arie dei personaggi minori (l’aria era invece l’episodio in cui la vicenda si ferma per dare spazio all’espressione del sentimento, dell’”affetto”, di un personaggio; questo avveniva mettendo in mostra tutta la bravura e il virtuosismo dei cantanti).
Le arie si dividevano in vari gruppi: vi erano le arie di sorbetto, affidate a personaggi secondari e chiamate così perché eseguite mentre gli spettatori mangiavano il gelato. La prima donna, invece, (o il primo uomo), cioè l’interprete più atteso faceva il suo ingresso in scena con l’aria del baule, ossia un’aria che metteva in luce le loro qualità vocali (per questo la portavano con sé come un bagaglio e la eseguivano sempre anche se proveniva da un’altra opera e non aveva nulla a che fare con quella rappresentata in quel momento). A pagare le conseguenze di quella moda furono i librettisti i cui testi venivano spesso deturpati e modificati senza nessun rispetto.

domenica 8 marzo 2009

tema e variazioni (2): capriccio

Il “capriccio” è una forma musicale bizzarra (da ciò prende il nome!) che non risponde a determinati schemi o moduli. Nasce nel sec. XVII come composizione strumentale dal carattere estemporaneo ed estroso. In seguito assume anche il significare di “studio”, cioè di esercizio tecnico per uno strumento.
Riguardo alla forma musicale “tema e variazioni”, possiamo ben inserire un percorso che ha per protagonista proprio un capriccio.
Si tratta di quello celeberrimo composto da N. Paganini al termine della serie dei 24 capricci op. 1 (1820). Paganini assegna alla forma del “capriccio” una dimensione e un significato nuovi. La successione svagata e brillante di note acquista un ordine netto, logico, pur senza rinunciare ai tratti bizzarri ed estemporanei tipici del barocco. La raccolta di quelli che spesso si risolvevano in esercizi scolastici viene trasformata in vera e propria musica, venendo investita di una qualità creativa nuova, e diventando anche un compendio della didattica, un manuale del perfetto violinista (da quest’ultimo punto di vista, potremmo fare un parallelo con le Sonate op. 5 di Corelli).
Il n. 24, appunto, è l’unico della raccolta in forma esplicita di “tema con variazioni”, riprendendo ed esaltando la consuetudine, riscontrabile nel tardo barocco, di concludere una raccolta violinistica all’insegna del bizzarro e dell’imprevedibile, talora con notevoli difficoltà esecutive. Il tema è un motivo simpatico e accattivante, dinamico e brillante, in tempo “quasi presto” che generazioni di musicisti riprenderanno per variarlo come fa lo stesso Paganini.
Ai capricci paganiniani si rifà, infatti F. Liszt nei suoi studi che sono brani in cui le possibilità tecniche del pianoforte sono esplorate fino ad un limite mai toccato in precedenza. Allo stesso tempo l’elaborazione e la progressiva trasformazione della forma testimoniano in modo ricco e completo la poetica lisztiana. I 6 Studi da Paganini (1838 e 1851) elaborano direttamente cinque capricci e il finale del concerto in si minore (il capriccio n. 24 viene elaborato nell’ultimo degli studi lisztiani sempre in forma di “tema con variazioni”).
I due quaderni di Variazioni su un tema di Paganini (che utilizzano sempre il tema del Capriccio op. 1 n. 24 in la minore) occupano un posto speciale nell’opera di J. Brahms: costituiscono un esempio unico di tema variato basato unicamente sull’elemento virtuosistico. Composte tra il 1862 e 1863, in queste variazioni Brahms ha saputo ricreare il diabolico virtuosismo dell’originale, tanto che Clara Schumann le soprannominò le “variazioni dello stregone”. Consistono in una versione pianistica dell’originale violinistico e in 28 variazioni divise in due quaderni. Nonostante i propositi virtuosistici – ciascuna variazione esplora inoltre una tecnica nuova –, l’opera non risulta affatto arida.
Propongo un sinteticissimo sguardo a quelle, forse, più belle ed interessanti.
I quaderno. Il tema viene esposto in la minore (tonalità originaria), in 2/4; le due mani suono in ottava, senza accompagnamento. I. Movimento continuo e grintoso di semicrome che richiede un gioco legato di seste alla destra e terze alla sinistra. Leggera variante armonica alla tredicesima misura in cui appare la sesta napoletana. VII. Le ottave cromatiche per moto contrario, nei registri estremi dello strumento, si oppongono a un disegno più fitto, in eco, nel registro medio. X. Assai lontano dallo spirito paganiniano, è uno studio tetro, in sincope, sotto voce, con crome staccate alla sinistra e terze legate alla destra. Il tema si trova nella zona centrale del pianoforte. XI. La maggiore. È un moto perpetuo un po’ naif come un carillon in ottave su uno sfondo di semicrome. XII. La maggiore. Riflessi cangianti di sonorità intrecciate alle due mani che sembrano giocare con l’acqua. Il motivo ostinato della sinistra (sei semicrome/una croma) è abbellito da sestine alla destra.
II quaderno. IV. Poco allegretto, con grazia: un valzer viennese, languido, senza notevoli difficoltà pianistiche. V. Un delicato scherzo in ritmo ternario: il tema è ridotto al suo scheletro armonico sullo scorrere delle terzine della mano sinistra. VI. Un capriccio violinistico, senza accompagnamento. XII. Poco andante in fa maggiore: intermezzo lirico e sentimentale alla maniera viennese. L’unico studio che sfugge alla tonalità di la. È scritto a tre voci. La destra svolge il canto in ottave avvolto dagli arpeggi della sinistra.
Anche nel Novecento, il fascino dell’ultimo capriccio paganiniano e il desiderio di riprenderlo sotto forma di “tema con variazioni” è stato fruttuoso e ha prodotto, ad esempio, la Rapsodia su un tema di Paganini op. 43 per pianoforte e orchestra di S. Rachmaninov. L’autore qui raggiunge i più alti vertici del virtuosismo pianistico e della ricerca di effetti pianistici sempre più sorprendenti, a discapito forse del vero e proprio approfondimento musicale.
Anche qui propongo alcune suggestioni.
Introduzione. Poche battute orchestrali utilizzano alcuni frammenti melodici del tema principale.
I. Precede l’esposizione del tema presentandone semplicemente lo scheletro ritmico.
Tema. Esposto dai violini.
VIII-IX-X. Variazioni virtuosistiche caratterizzate dalle possenti masse accordali del pianoforte (VIII), da un’insistente sincope ritmica (IX), dall’inserimento del tema dell’antica sequenza gregoriana Dies irae (X). È un trittico di variazioni che sempre riprodurre il ritmo della civiltà industriale del lavoro e dell’ansia produttiva.
XIX. Eterei disegni nel registro acuto del pianoforte con un ritmo stravolto e carattere metallico.
XXIII. Ritorno del tema esposto dal pianoforte e subito ripreso dall’orchestra.
XXIV. Il discorso musicale si fa serrato e stringente: i frammenti del tema principale si combinano con il tema del Dies irae. La composizione termina (stranamente?) in pianissimo con un semplice pizzicato degli archi.

giovedì 5 marzo 2009

la traviata, preludio

Centocinquantesei anni fa, il 6 marzo 1853, andava in scena, al Teatro la Fenice di Venezia, uno dei melodrammi verdiani destinato a rimanere nella storia della musica: La Traviata.
Seguendo quasi un cliché di tante altre composizioni, la prima rappresentazione di quest'opera fu un vero e proprio fiasco tanto che la versione ormai nota ed eseguita è quella che Verdi modificò (pochissimo per quello che lui ebbe a dire esplicitamente, un po' di più per quello che sostengono i critici) per la nuova rappresentazione, sempre a Venezia ma al Teatro san Benedetto, nel 1854.
Non scendo nel merito di tante questioni circa la posizione che La Traviata ha nell'intero corpus verdiano (perchè non ne sarei all'altezza), ma certamente può meritare l'appellativo di "tragedia borghese" e le può essere riconosciuto un ruolo centrale nello sviluppo dell'autore: ormai allontanatosi dai soggetti legati ad epoche remote (Attila), leggendari (Macbeth) e cavallereschi (Ernani), Verdi opta per la rappresentazione di qualcosa di quotidiano che potesse veramente toccare i suoi contemporanei. Ecco nascere allora Rigoletto (dove borghese non sarebbe propriamente il contesto ma il personaggio principale), ma prima ancora Luisa Miller (più borghese ma meno fortunata, purtroppo).
A tale proposito, il soggetto, proveniente dal dramma La Dame aux camélias di A. Dumas figlio, come successe per Rigoletto e come succederà con Un ballo in maschera per motivi non troppo differenti, non venne pienamente accolto dalla censura. Fu deciso, infatti, di ambientare la vicenda nel secolo precedente (il XVIII) per evitare un'eccessiva percezione della contemporaneità dei fatti. Ma proprio questo fece scivolare l'attenzione sull'intento verdiano di offrire agli spettatori una trama che li coinvolgesse perchè, con un sapore quasi cronachistico, potessero riconoscere gli ambienti da loro frequentati e i mali della loro società (bellissima, a questo riguardo, la rappresentazione con Patrizia Ciofi e Roberto Saccà fatta nel 2004 nella Fenice restaurata).
Due preludi sono presenti nell'opera: quello iniziale e quello del terzo atto. Entrambi appaiono fortemente legati anche al primo ascolto. Per realizzare con la musica il suo progetto, Verdi riuscì a comporre questi due brani (come anche buona parte dell'opera) per avvicinarsi al mondo dell'intimità e della quotidianità dell'ambiente borghese (letto però con occhi disincantati).
L'inizio è praticamente identico perchè presenta lo stesso tema con minime differenze. Lo scarto è costituito dal fatto che il primo preludio (dato l'ovvia posizione) si erge a sintesi dell'intera opera come per ri-leggerla tutta. Dico ri-leggerla perchè lo fa a ritroso, in flash-back: il fatto che il primo tema sia in comune con quello del terzo atto ci trasporta subito nella scena corrispondente con Violetta ormai malata; ad esso segue l'inserimento di quel celeberrimo motivo melodico (cui molte pubblicità dovrebbero essere grate) che ritornerà nel secondo atto - "Amami, Alfredo" - e che rappresenta uno dei nodi principali della storia d'amore fra i protagonisti; il tutto sfocia nel clima spensierato e gaudente su cui si aprirà il sipario e che costituisce l'atto primo.
Il secondo preludio, quello al terzo atto, invece, dopo le prime battute, difficilmente potrebbe anticipare una riunione godereccia di amici (come quella che si era lasciato alle spalle al termine del secondo atto) ma penetra, in modo molto nobile e mirabile, nell'epilogo del dramma ormai, come Violetta, consumato. Ecco le parole di commento di Boito: "Sottile nel senso latino di gracilis, exilis è veramente l'epiteto necessario per caratterizzare quella commoventissima pagina. [...] Per significare uno che muore tisico noi diciamo: muore di mal sottile. Quel preludio par che lo dica coi suoni, con quei suoni così acuti e tristi ed esili, quasi senza corpo, eterei, malati di morte imminente. Chi avrebbe potuto pensare ch'era in potere della musica di realizzare l'ambiente d'una camera tutta chiusa verso l'alba, d'inverno, dove si veglia un malato, prima che fosse scritto quel preludio? Quel silenzio! Quel silenzio quieto e penoso fatto di suoni! L'anima della morente legata alla salma da un sottilissimo filo di respiro!".

mercoledì 4 marzo 2009

tema e variazioni (1): follia

Il tema (dal verbo titemi = porre) è l’idea musicale fondamentale, caratterizzata da elementi melodici, ritmici e armonici suscettibili di sviluppo, elaborazione e variazione all’interno della composizione. È l'elemento su cui si basano tutte le forme musicali e ha come caratteristiche fondamentali l’individualità, la riconoscibilità, l’incisività e la chiarezza tali da consentirne una facile identificazione.
Variare significa mutare, trasformare. Nella forma musicale della “variazione”, quindi, il tema si espone, si completa e riceve nuovi ornamenti ma queste modificazioni, per quanto profonde esse siano, non lo pongono in movimento, non lo fanno propriamente agire perché esso rimane allo stato di riposo. Nella variazione il tema non viene elaborato o sviluppato ma continuamente ripensato rinnovato sfruttando e valorizzando ogni sua risorsa e possibilità (tutti gli elementi che il tema – melodia, ritmo, armonia, timbro – sono suscettibili di variazione).
Ci sono, nella storia della musica, alcuni temi che ricorrono spesso attraverso tutte le epoche perché hanno ammaliato più autori. Tra i più antichi e celebri vi è la cosiddetta “follia”.
In origine si tratta di una danza portoghese in uso fin dal sec. XV che nasce come connessa ai riti della fecondità, è caratterizzata da un ritmo rapido, dal suono di nacchere, dai danzatori travestiti e dal fatto che sembravano essere fuori di senno (basta pensare al nome!). Esportata in Spagna, Francia e Italia, si trasformò in una danza di corte, in ritmo ternario, molto libera nei movimenti, perdendo la carica dionisiaca che la pervadeva. Fu nei sec. XVII e XVIII che se ne ricavò un tema melodico ben definito e uno schema armonico impiegati come base per variazioni strumentali.
Non ha bisogno di grandi presentazioni Arcangelo Corelli (1653-1713), uno tra i maggiori rappresentanti del barocco strumentale italiano e capostipite di una scuola che si irradierà in tutta Europa, che attinge alla “follia” per l’ultima delle sue Sonate per violino e basso continuo op. 5 (1700), la dodicesima in re minore.
Il tema viene presentato e poi variato 23 volte compendiando e coronando ogni sfida tecnica mossa al violinista. Il percorso attraverso cui Corelli ci conduce è un percorso camaleontico che vuole irretire l’ascoltatore attraverso continue trasformazioni del tema di cui, nonostante tutto, si mantiene sempre forte la memoria (per questo non si parla di tema che agisce ma rimane statico) ma che acquisisce man mano un carattere sempre più ossessivo e trascinante.
Ecco un semplice schema della Sonata senza troppe pretese.
Tema. Duplice esposizione del tema sul basso di follia (due periodi di otto misure ciascuno). 1. Fornisce schegge di ricordo del tema. 2. Tema esposto saltellando su varie note mediante arpeggi. 3. Gioco di botta e risposta tra violino e basso che insieme alternano gruppi di quattro e poi tre note, rendendo difficile il mantenimento del ritmo. 4. Spetta al violino il ruolo dell’accentuazione. 5. Inversione dei ruoli: accentuazione al basso, il violino completa l’esposizione. 6. Per creare l’effetto del moto perpetuo, vengono incrementati i suoni eliminando le pause. 7. Inversione delle parti rispetto alla variazione precedente. 8. Legato espressivo delle due note a due a due in un clima opposto alla precedente variazione: lentezza esasperata. 9. Dialogo serrato, febbrile e ansioso tra violino e basso. 10. Agile andamento per terzine del violino. Il basso tace sul tempo forte della misura. 11. Il tema è riproposto abbreviato e rallentato. 12. Nei gruppi di quattro note sono camuffate alcune note del tema; spetta al violinista sottolinearle. 13. Proposta rapida della cellula ritmica ternaria. 14. Pagina lirica: il violino si riposa con suoni molto lunghi lasciando lavorare il basso. 15. Il violino suona due note contemporaneamente. 16. Il violino inizia sempre con una pausa consentendo così di percepire il chiaro ruolo degli strumenti che realizzano la linea del basso. 17. Figurazioni sincopate al violino. Andamento regolare per semimine al basso. 18. La concitazione del violino poggia su chiara scansione ritmica del basso. 19. Gli strumenti giocano ad imitarsi tra loro. 20. Tutto viene impostato per gruppi di tre note. 21. Inversione della parti rispetto alla variazione precedente: il gioco delle tre note è portato al basso. 22. Pagina virtuosistica non basata su una semplice sequenza di note veloci ma su una duplice sequenza di note. 23. Inversioni delle parti rispetto alla variazione precedente.