venerdì 27 febbraio 2009

don carlos

Ventitré anni dopo la vicenda tra Enrico VIII e Anna Bolena raccontata da Romani e messa in musica da Donizetti, nel 1559 la pace stipulata tra Francia e Spagna venne suggellata dal matrimonio di Filippo II con Elisabetta di Valois. Furono anni intensi quelli del regno di Filippo II, carichi di molte vicende spesso problematiche, come la rivolta dei Paesi Bassi, e segnati dall’eterno rapporto di amore-odio fra trono e altare ben espresso dal fenomeno dell’Inquisizione.
Non poteva scegliere argomento più avvincente Verdi quando si accinse a comporre la musica per il suo “Don Carlos”, grand-opéra in cinque atti su libretto di Mery e Du Locle tratto dal dramma schilleriano.
Opera accusata di prolissità e tortuosità perché effettivamente presenta una trama notevolmente complessa e arricchita da grandi tematiche di cui i personaggi si fanno portavoce. Ma, nonostante le critiche mosse e dovute forse anche alla sua lunghezza, si tratta di un vero e proprio capolavoro verdiano tanto che, ad un ascolto attento, si rivela tutt’altro che noiosa anzi, per merito di alcuni accorgimenti (ritorno di alcuni temi e utilizzo di un motivo, caratterizzato dall’instabilità cromatica di un’acciaccatura di semitono, che lega azioni, scene e personaggi).
La lunghezza, appunto, non è cosa da poca dato che lo stesso Verdi, tra la prova generale e la prima rappresentazione (all’Opéra di Parigi l’11 marzo 1867) decise di sopprimere otto brani per snellire la partitura di una ventina di minuti. Questi brani sono stati poi recuperati ma non credo che siano mai stati inseriti tutti in un’esecuzione completa dell’opera concepita da Verdi. Ma la storia dell’opera non si ferma a quella sera: cinque anni dopo, nel 1872, venne effettuata una rappresentazione napoletana in lingua italiana (versione ritmica di de Lauzieres) ma con qualche taglio fatto dall’autore (spartito ormai relegato agli interessi storici e filologici); nel 1884 (a diciassette anni dalla prima), per la rappresentazione milanese (quella oggi più seguita), Verdi operò grandi rimaneggiamenti in tutti gli atti che divennero quattro (fu eliminato il primo ambientato nella foresta di Fontainebleau) e furono tradotti in italiano da Zanardini (sulla base della versione di de Lauzieres); nel 1886, a Modena, il primo atto viene ripristinato e premesso alla versione italiana scaligera di due anni prima.
Alla complessa storia teatrale dell’opera corrisponde una multiforme varietà di messe in scena e di incisioni in studio: poche le versioni del ’67 in cinque atti e in francese (cui ogni tanto si inserisce qualche brano degli otto espunti ma spesso a mo’ di appendice e quindi strappati dal loro originario contesto teatrale), la maggior parte si affida alla versione milanese del 1884 (quattro atti in italiano), mentre il vero problema sono quelle che realizzano un gran miscuglio non sempre di buon risultato oltre che scorretto e non conforme al pensiero dell’autore.
Certamente il rifacimento dell’84 (possibilmente nella lingua originale francese con i suoi accenti musicalissimi che scolpiscono le personalità dei personaggi) è da preferire come concezione melodrammatica di un Verdi pienamente maturo. È tra le più grandi espressioni del grand-opéra ormai giunto al termine della sua storia: in esso Verdi accetta deliberatamente di sottostare ad alcune convenzioni tipiche richieste dal pubblico parigino (ciò si vede, ovviamente, in misura maggiore nella prima versione), tra cui non mancano soluzioni spettacolari (la grande scena dell’autodafé, infatti, non appartiene al dramma di Schiller ma fu voluta fortemente dal musicista), ma le vive senza lasciarsene condizionare ma sfruttandole per costruire un edifico narrativo estremamente vivo ed inglobante: la dilatazione temporale, l’espansione drammaturgica e l’utilizzo maturo delle forme riescono a rendere in pienezza tutte le grandi tematiche di un soggetto difficile di difficile agilità scenica (conflitto tra trono e altare, contrasti amorosi ed eros frustrato, amicizia).
Tutto ciò non viene affatto smantellato nella versione milanese che, invece, perfeziona e meglio equilibra la grande cornice storica e il dipanarsi delle vicende e dei sentimenti dei protagonisti.
Tra gli innumerevoli brani di grande bellezza, Tu che le vanità (dal V atto) è l’ultimo momento solistico affidato ad Elisabetta che prega davanti alla tomba di Carlo V piangendo per la sua felicità perduta. Per gustarlo sarebbe opportuno aver assistito alla scena del I atto di Fontainebleau, proprio perché l’aria finale è il punto di arrivo della psicologia del personaggio le cui rimembranze che sgorgano nella parte centrale sono legate allo scoccare dell’amore per Carlo.

giovedì 26 febbraio 2009

coppia iniqua

Se nel 1817 andava in scena a Roma “La Cenerentola” di Rossini su libretto di Ferretti, un anno prima, nel 1816, Ippolito Pindemonte terminava la tragedia “Enrico VIII ossia Anna Bolena” offrendo, a sua insaputa, un ottimo spunto al librettista Felice Romani per la composizione di un’opera commissionata nell’estate del 1830 dal Teatro Carcano di Milano al trentatreenne Gaetano Donizetti.
Occasione per rifarsi, nella città milanese, da precedenti opere di poco successo (quali “Chiara e Serafina” e “Alina, regina di Golconda”), Donizetti non perse tempo per dedicarvisi. L’opera, infatti andò in scena il 26 dicembre 1830 e riscosse un notevole successo accompagnato, però, da alcune critiche e riserve riguardanti in particolare il I atto. Ciò porto il musicista ad operarne una revisione, non sostanziale ma neanche limitata a semplici limature, e a farla nuovamente rappresentare, nella versione a noi conosciuta, nel febbraio del 1831.
Purtroppo, allo stato attuale, “Anna Bolena” non è ancora entrata pienamente nel novero dei grandi melodrammi donizzettiani e italiano del primo Ottocento. Effetto forse del fatto che, nella città della prima, Milano, non fu più rappresentata per circa un secolo: la ripresa fu la celebre edizione del 1957 con Gavazzeni sul podio ed una strepitosa Callas.
A ben ragione, infatti, si deve considerare “Anna Bolena” un momento importante della produzione di un Donizetti che si distanziava sempre più dalla tradizione precedente, rossiniana in particolare, per giungere a soluzioni drammaturgiche sempre più personali e moderne. Risalta subito l’attento lavoro che cerca di ridurre al minimo la separazione tra i recitativi e i numeri chiusi all’interno della narrazione, l’utilizzo di alcuni temi ricorrenti (non dobbiamo però pensare a leit-motiv wagneriani veri e propri) per creare una maggiore compattezza drammaturgica, la rinuncia al lieto fine in linea con la concezione romantica ormai diffusa, la cura della linea melodica della protagonista al fine di renderne in ogni particolare la psicologia, il numero e il grande rilievo dei concertati ormai consueti per Donizetti.
Questo nuovo linguaggio che il musicista stava conquistando si rivela molto bene nella scena finale, la famosa Coppia iniqua. È un brano che affascina sia per il suo virtuosismo sia per il carattere e il contesto in cui si trova: al termine di una vicenda drammatica in cui Anna, alternando momenti di lucidità e di delirio (e precorrendo in parte la futura Lucia), dopo aver ripercorso con la memoria il suo matrimonio con Enrico e l’amore giovanile con Riccardo Percy, è ormai condannata, senza aver potuto discolparsi, ed esce di scena invocando sulla nuova coppia regale il perdono divino.
Oltre alla già citata interpretazione della Callas nel 1957, sono abbastanza conosciute e diffuse in disco quelle della Sills del 1972 e della Sutherland del 1987. Tre esempi che si possono prendere come ennesima dimostrazione di quanti approcci diversi allo stesso testo e allo stesso brano si possano realizzare (e tutti in modo eccellente).Molto brevemente si può notare come la Callas affronti il ruolo, in particolare la scena finale, con grande dinamismo, decisione e grinta. Certamente il librettista fa dire ad Anna col perdono sul labbro si scenda ma c’è, nel canto della Callas, una rabbia evidente per ciò che le è accaduto. E ciò si nota, credo, nel tono di tacete, tacete, cessate, cessate: di fronte alle parole degli astanti che implorano il cielo per la misera, non c’è voglia di ascoltare neanche questa implorazione.Diverso è il caso della Sills che, con una voce forse poco adatta al ruolo perché meno corposa, rivela un altrettanto dinamismo e un’altrettanta grinta cui, però, aggiunge la sfumatura di una sorta di isteria e di nervosismo: un canto screziato dal suo dolore che, quindi, nelle parole intima a tutti di non poter più fare nulla per lei.Infine la Sutherland che in questo finale è veramente eccezionale: pur essendovisi accostata non più giovanissima (c’è anche una registrazione video dal vivo effettuata in Canada), la voce è veramente eccellente e il trillo finale è a dir poco sensazionale e da brivido. La linea del canto è mantenuta estremamente omogenea, c’è un’intesa perfetta con l’orchestra e il direttore (se non altro perché è il marito), e le sfumature sono notevoli soprattutto nelle parole con cui si rivolge al Dio di pietà al cui cospetto chiede clemenza e favore. Se definirei quasi rabbiosa l’interpretazione della Callas e percorsa dalla tensione e dal nervosismo quella della Sills, qui sento tutta la regalità di Anna che, pur nella situazione in cui è occorsa, non viene meno: la cantante lo fa sentire benissimo nelle famose parole tacete, tacete, cessate, cessate in cui il tono maestoso e nobile vuole mettere a tacere tutti.La grande passione e intensità che queste tre grandi interpreti, ognuna a modo suo, hanno saputo infondere e trasmettere in un’opera bellissima e importante nel cammino del melodramma ottocentesco, ci ricordano che forse potrebbe essere maggiormente valorizzata.

mercoledì 25 febbraio 2009

Nel volto estatico

Nel volto estatico: con questo verso inizia l’ultima sezione del quintetto del I atto de “La Cenerentola” di Gioacchino Rossini: Nel volto estatico / di questo e quello / si legge il vortice / del lor cervello, / che ondeggia e dubita / e incerto sta.
La vicenda del melodramma è quella della classica fiaba già narrata da Perrault da cui però il librettista, Jacopo Ferretti, si discostò notevolmente per adattare il soggetto ad alcune forme e stereotipi tradizionali dell’opera comica nonché al gusto particolare del pubblico romano (l’opera fu rappresentata per la prima al Teatro Valle il 25 gennaio 1817).
Tra gli elementi che fanno la differenza è evidente come l’apporto del soprannaturale e il ruolo del fantastico vedano un’intensa diminuzione. Ma è da osservare che Ferretti si trovò a lavorare non direttamente sul testo di Perrault ma su libretti di altre opere che facevano così da prima mediazione (i libretti di Étienne e di Fiorini per le opere, rispettivamente, di Isovard e di Pavesi).
Così nella Cenerentola di Ferretti-Rossini la protagonista perde un bracciale, e non una scarpetta, per non offendere il pudore della censura romana; in luogo della matrigna troviamo un patrigno che si trova a suo agio in un’opera buffa dove non sono mai mancati richiami a piccoli nobili ambiziosi, spiantati e sciocchi; la fata viene sostituita dal saggio filosofo Alidoro; viene creata la nuova figura di Dandini il cameriere per poter divertire con gli equivoci provocati dalla sostituzione del suo ruolo con quello del principe don Ramiro.
Tutto ciò non fece che riporta la fiaba delicata e incantata nel contesto più comune dell’opera buffa: un clima realistico non scevro dalla presenza di elementi convenzionali. Questo non fece bene ai giudizi sull’opera, spesso accusata di forti mancanze e debolezze sul piano strettamente librettistico e drammaturgico.
Per fortuna, la musica di Rossini è ben lontana dal conoscere fragilità e qui (siamo negli anni più fecondi della sua produzione) si manifesta appieno nella sua grandezza.
L’ultima sezione del quintetto del I atto, Nel volto estatico appunto, musicalmente vuole riprodurre tutto ciò che il testo esprime: l’estasi dei volti dei personaggi coinvolti, il vortice dei pensieri che si rincorrono nella loro testa, l’ondeggiare e il dubitare dei sentimenti diversi che ognuno vive, l’incertezza di fronte ad una strana piega che la vicenda assume.
Si colloca, infatti, questa sezione finale del quintetto, in un momento di pausa della narrazione, come per fare una sosta di fronte agli avvenimenti (non si tratta di un coro ma di un concertato che prende su di sé l’antica funzione di commento riservata al coro e in cui, nelle rappresentazioni, anche i cantanti assumono una posizione statica). Ciò si realizza prima con un brano più belcantistico in cui tutti i protagonisti cantano lo stesso testo dal ritmo danzante che asseconda lo stupore e la meraviglia (Nel volto estatico / di questo e quello / si legge il vortice / del lor cervello, / che ondeggia e dubita / e incerto sta) e poi con una parte più vivace e sillabata in cui i testi e le emozioni di differenziano e si rivelano: si passa così dalla rabbia trattenuta a denti stretti di don Magnifico (Se tu più mormori / solo una sillaba / un cimiterio / qui si farà), al timore di Cenerentola per la sua sorte (Deh soccorretemi, / deh non lasciatemi. / Ah! Di me, misera, / che mai sarà?); dalla furia di don Ramiro ormai innamorato (Via, consolatevi. / Signor, lasciatela. / Già la mia furia / crescendo va), ai vani desideri di Dandini che fa fatica a calarsi nella parte del principe (Io sono un Principe, / o sono un cavolo? / Vi mando al diavolo: / venite qua); si frappone nella scena Alidoro che, unico, richiama tutti a cessare dallo strepito e a fare silenzio (Via, meno strepito: / fate silenzio. / O qualche scandalo / qui nascerà).
Capolavoro dell’arte rossiniana, richiama il Largo concertato del “Barbiere di Siviglia” Freddo ed immobile sia per il carattere che per il ruolo e la posizione. È un quintetto che cela al suo interno interrogativi, momenti di sospensione, pensieri sussurrati e sovrapposti; tutto però viene estratto dal testo e dal cervello dei personaggi attraverso la musica che si appoggia quasi esclusivamente sulle voci che giocano tra di loro, si intrecciano, si distaccano e si ricompongono, sopra un esile tessuto orchestrale di fondo.