giovedì 26 febbraio 2009

coppia iniqua

Se nel 1817 andava in scena a Roma “La Cenerentola” di Rossini su libretto di Ferretti, un anno prima, nel 1816, Ippolito Pindemonte terminava la tragedia “Enrico VIII ossia Anna Bolena” offrendo, a sua insaputa, un ottimo spunto al librettista Felice Romani per la composizione di un’opera commissionata nell’estate del 1830 dal Teatro Carcano di Milano al trentatreenne Gaetano Donizetti.
Occasione per rifarsi, nella città milanese, da precedenti opere di poco successo (quali “Chiara e Serafina” e “Alina, regina di Golconda”), Donizetti non perse tempo per dedicarvisi. L’opera, infatti andò in scena il 26 dicembre 1830 e riscosse un notevole successo accompagnato, però, da alcune critiche e riserve riguardanti in particolare il I atto. Ciò porto il musicista ad operarne una revisione, non sostanziale ma neanche limitata a semplici limature, e a farla nuovamente rappresentare, nella versione a noi conosciuta, nel febbraio del 1831.
Purtroppo, allo stato attuale, “Anna Bolena” non è ancora entrata pienamente nel novero dei grandi melodrammi donizzettiani e italiano del primo Ottocento. Effetto forse del fatto che, nella città della prima, Milano, non fu più rappresentata per circa un secolo: la ripresa fu la celebre edizione del 1957 con Gavazzeni sul podio ed una strepitosa Callas.
A ben ragione, infatti, si deve considerare “Anna Bolena” un momento importante della produzione di un Donizetti che si distanziava sempre più dalla tradizione precedente, rossiniana in particolare, per giungere a soluzioni drammaturgiche sempre più personali e moderne. Risalta subito l’attento lavoro che cerca di ridurre al minimo la separazione tra i recitativi e i numeri chiusi all’interno della narrazione, l’utilizzo di alcuni temi ricorrenti (non dobbiamo però pensare a leit-motiv wagneriani veri e propri) per creare una maggiore compattezza drammaturgica, la rinuncia al lieto fine in linea con la concezione romantica ormai diffusa, la cura della linea melodica della protagonista al fine di renderne in ogni particolare la psicologia, il numero e il grande rilievo dei concertati ormai consueti per Donizetti.
Questo nuovo linguaggio che il musicista stava conquistando si rivela molto bene nella scena finale, la famosa Coppia iniqua. È un brano che affascina sia per il suo virtuosismo sia per il carattere e il contesto in cui si trova: al termine di una vicenda drammatica in cui Anna, alternando momenti di lucidità e di delirio (e precorrendo in parte la futura Lucia), dopo aver ripercorso con la memoria il suo matrimonio con Enrico e l’amore giovanile con Riccardo Percy, è ormai condannata, senza aver potuto discolparsi, ed esce di scena invocando sulla nuova coppia regale il perdono divino.
Oltre alla già citata interpretazione della Callas nel 1957, sono abbastanza conosciute e diffuse in disco quelle della Sills del 1972 e della Sutherland del 1987. Tre esempi che si possono prendere come ennesima dimostrazione di quanti approcci diversi allo stesso testo e allo stesso brano si possano realizzare (e tutti in modo eccellente).Molto brevemente si può notare come la Callas affronti il ruolo, in particolare la scena finale, con grande dinamismo, decisione e grinta. Certamente il librettista fa dire ad Anna col perdono sul labbro si scenda ma c’è, nel canto della Callas, una rabbia evidente per ciò che le è accaduto. E ciò si nota, credo, nel tono di tacete, tacete, cessate, cessate: di fronte alle parole degli astanti che implorano il cielo per la misera, non c’è voglia di ascoltare neanche questa implorazione.Diverso è il caso della Sills che, con una voce forse poco adatta al ruolo perché meno corposa, rivela un altrettanto dinamismo e un’altrettanta grinta cui, però, aggiunge la sfumatura di una sorta di isteria e di nervosismo: un canto screziato dal suo dolore che, quindi, nelle parole intima a tutti di non poter più fare nulla per lei.Infine la Sutherland che in questo finale è veramente eccezionale: pur essendovisi accostata non più giovanissima (c’è anche una registrazione video dal vivo effettuata in Canada), la voce è veramente eccellente e il trillo finale è a dir poco sensazionale e da brivido. La linea del canto è mantenuta estremamente omogenea, c’è un’intesa perfetta con l’orchestra e il direttore (se non altro perché è il marito), e le sfumature sono notevoli soprattutto nelle parole con cui si rivolge al Dio di pietà al cui cospetto chiede clemenza e favore. Se definirei quasi rabbiosa l’interpretazione della Callas e percorsa dalla tensione e dal nervosismo quella della Sills, qui sento tutta la regalità di Anna che, pur nella situazione in cui è occorsa, non viene meno: la cantante lo fa sentire benissimo nelle famose parole tacete, tacete, cessate, cessate in cui il tono maestoso e nobile vuole mettere a tacere tutti.La grande passione e intensità che queste tre grandi interpreti, ognuna a modo suo, hanno saputo infondere e trasmettere in un’opera bellissima e importante nel cammino del melodramma ottocentesco, ci ricordano che forse potrebbe essere maggiormente valorizzata.

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