lunedì 23 marzo 2009

guglielmo tell, sinfonia

Siamo nel XIV secolo, in Svizzera. Il paese, oppresso dagli austriaci, è sotto la tirannia del governatore Gessler e alcuni uomini, tra i quali il prode Guglielmo Tell, cominciano a tramare la ribellione. In un giorno di festa, Tell, insieme al figlio dodicenne Jenny, si rifiuta di rendere omaggio al governatore e viene trascinato davanti a Gessler. Questi gli offre la libertà a patto che colpisca con una freccia una mela sul capo del figlio. Tell supera la prova, ma gli cade per terra una seconda freccia che aveva nascosto nella giacca. Interrogato, rivela che era destinata a lui se il figlio non fosse sopravvissuto. Furibondo, il tiranno lo fa arrestare e lo condanna a morte. Mentre viene condotto dalle guardie in prigione – un castello circondato dalle acque – si scatena una violenta tempesta. Approfittando della confusione, Tell riesce a liberarsi e trafigge il tiranno. Sopraggiungono gli altri svizzeri e in breve hanno la meglio sugli austriaci.
La Sinfonia è una bellissima pagina sinfonica suddivisa in quattro sezioni con un carattere chiaramente programmatico: esprime, infatti, sinteticamente ma con vivacità tutti i punti essenziali della vicenda (non utilizzando il materiale musicale che verrà proposto in seguito, ma presentando tutti gli accenti espressivi dell’opera: patriottici, sentimentali, paesaggistici…).
Inizia con uno struggente Andante cantabile per 5 violoncelli che evoca il sorgere del sole sulle Alpi e l’accorata preghiera del popolo oppresso che chiede aiuto e conforto a Dio.
La realistica tempesta (Allegro) che segue simboleggia i sentimenti di rivolta degli svizzeri. Musicalmente, l’episodio inizia con i legni che imitano i primi grossi goccioloni di pioggia; intervengono poi i violini, in pp, come folate di vento che man mano prendono consistenza; infine, con uno strepitoso crescendo, si scatena veementemente tutta l’orchestra che non fa mancare tuoni e lampi al suono dei tromboni e timpani. L’acquazzone lentamente si placa, torna la calma e anche gli ultimi goccioloni svaniscono.
L’incantevole paesaggio agreste (Andantino) in cui si svolge la drammatica vicenda, è reso musicalmente dal corno inglese che esegue un dolce motivo pastorale e bucolico. A questo suono si sovrappongono le svolazzanti e gioiose note di un flauto che sembra proprio imitare, con le sue fioriture virtuosistiche, il canto di un usignolo.
Squilli di trombe e di corni annunciano la vittoria. Gli svizzeri sono insorti e hanno scacciato gli oppressori. Questa coda finale è una pagina celeberrima (forse anche troppo perché finisce dappertutto, dalle pubblicità alle suonerie!) e lo è a buon motivo: la musica è trascinante, travolgente e incalzante nel suo galoppare da cavalcata finale (Allegro vivace) in cui c’è tutta l’esultanza della gente che ha ritrovato la libertà.

lunedì 16 marzo 2009

ballata op.38

Quando i manuali parlano del romanticismo, capita di leggere che era tipico di quel periodo procedere per contrapposizioni e contrasti molto forti. Quando i manuali parlano di qualsiasi cosa, lo fanno in genere in modo un po' riduttivo.
Ma l'ascolto della seconda Ballata di Chopin sembra proprio convalidare questa descrizione (o forse è il contrario...).
Come al solito nelle Ballate, viene utilizzata una forma bi-tematica senza però alludere ai temi della forma-sonata, ma qui i due elementi sono veramente di carattere antitetico: il primo è meravigliosamente cullante, dolcissimo e sognante; il secondo possiede un'irruenza che fa saltare sulla sedia se si pensa che si inserisce alla fine della prima parte senza nessuna pausa ma facendo subentrare una raffica di note in ff dopo un delicatissimo accordo in smorzando.
La prima sezione in fa maggiore, dunque, potrebbe a ragione essere definita una "pastorale" (in 6/8). L'idea è sostanzialmente una e si muove sottovoce su poche note, in un ambito molto ristretto e intimo; viene svolta più volte in ripetizione con qualche modifica creando, grazie all'uso del pedale, un'atmosfera di pace e di serenità.
La seconda sezione ci fa conoscere il suo carattere già dall'indicazione presto con fuoco: scoppia all'improvviso con tutta la sua violenza e drammaticità e si costituisce da sestine continue che, a differenza del primo tema, percorrono tutta la tastiera quasi a cercare una possibile sosta all'agitazione che le pervade. Sarà verso la battuta 61 che si verifica un cambiamento: a partire dal piano, con un accellerando che in sette battute riporta al fortissimo, le sestine cessano e si raggruppano (per così dire) in accordi pieni e accentati che nel ritmo richiamano un po' la prima sezione ma che hanno la parvenza di tanti punti interrogativi che portano sempre più in alto alla ricerca di uno sfogo sempre maggiore.
Ma è da questa parte finale della seconda sezione che, in modo indolore, sgorga nuovamente il primo tema in fa maggiore (anche questa volta senza pausa ma anche senza il contrasto dinamico).
Non si tratta però di una semplice ripetizione: questa volta il tema pastorale, dopo poche battute, si modifica, subisce una mutazione che prende il via da un accordo di nona di dominante di re bemolle maggiore. Il carattere è ora diverso grazie all'artificio armonico e modulatorio che Chopin realizza: sempre pastorale e dolce, il tema acquista anche una venatura di tenerezza e quasi mestizia tanto che riesce, tra crescendo e diminuendo, tra accellerando e ritenendo, tra snellimento del suono e sua intensificazione, a portare alla ripresa del presto con fuoco.
Anche questa sezione riappare invariata nel sentimento ma con una mutazione finale che, dopo quattro doppi trilli, conduce all'appassionata e travolgente coda finale indicata agitato (ma non è certo l'unico momento della Ballata in cui proviamo questa emozione).
La coda è tradizionalmente non tematica e sfrutta come sempre il virtuosismo. Nella grande confusione (in senso positivo, ovviamente) creatasi da questa ultima sezione, la melodia va ad infrangersi su un accordo dissonante e sforzatissimo, cui segue una pausa con corona dalla quale riemerge il tema iniziale. Riemerge però mutato nell'intimo perchè lo troviamo nella tonalità di la minore (quella della seconda sezione): poche battute che si spengono in un piano che porta al silenzio.
E' un caso abbastanza raro quello di iniziare un pezzo in tonalità maggiore e chiuderlo in minore; mi viene in mente il secondo improvviso op.90 di Schubert. Sarebbe interessante riflettere sul motivo di queste scelte.

martedì 10 marzo 2009

melodramma (1)

Impossibile sintetizzare le origini di un genere musicale in poche parole (anche perchè spesso gli inizi non sono mai chiari), tanto meno lo è farlo relativamente all'opera lirica i cui primi passi sono tuttora molto discussi. Comunque questa sintesi, un po' scolastica e senza troppe pretese, può richiamare alla mente alcuni passaggi effettivamente importanti per questo genere.
Quello dell’opera (anche se il termine non è perfettamente adeguato), intatti, non è un genere antico che risale alla fine del XVI secolo, quando alcuni artisti che si riunivano presso il conte Giovanni Bardi di Firenze, ispirati dalla tragedia greca, crearono una nuova forma di spettacolo in cui erano presenti, insieme e per la prima volta, poesia, azione teatrale e musica. Nacque così il melodramma (“dramma in musica”) in cui i personaggi di una vicenda si esprimono mediante il canto.
Gli ingredienti del melodramma sono allora: il libretto, la scenografia, la musica.
Il libretto, cioè la trama dell’opera scritta in versi dal poeta in collaborazione con il compositore, si suddivide in atti e ogni atto in più scene. Nel libretto sono annotate anche le indicazioni per lo svolgimento dell’azione teatrale: entrate e uscite di scena dei personaggi, loro comportamento sulla scena, cambi di arredamento, ecc.
La scenografia, cioè la cura dei costumi, trucchi, arredi, movimenti sulla scena, crea la giusta ambientazione alla rappresentazione teatrale e fa sembrare reale ciò che è pura finzione; a poco a poco nei libretti dell’epoca barocca si comincerò a dare spazio alla ricerca del meraviglioso e degli effetti spettacolari, arricchendo il melodramma di scenografie e costumi appariscenti, congegni meccanici per realizzare effetti speciali (tuoni, terremoti, pioggia, ecc.).
La musica ha ovviamente un ruolo fondamentale, perché costantemente presente. Il musicista mette il libretto in musica, scrivendo sia le parti per i cantanti, sia quelle per gli strumentisti. Nell’opera musicale si alternano: a) episodi strumentali, b) canto solistico, concertati, cori, c) danze.
Probabilmente, il primo esempio di quello che oggi chiamiamo “opera lirica” è un lavoro di Jacopo Peri (1561-1633), Euridice, che mise in scena nel 1600, in collaborazione con il librettista Ottavio Rinuccini, un dramma ispirato alla vicenda mitologica di Orfeo ed Euridice, proponendone però un finale lieto, come omaggio a Maria de’ Medici all’interno dei festeggiamenti per il suo matrimonio. Le è contemporanea un'altra Euridice, quella di Giulio Caccini, altro musicista della cerchia fiorentina che peraltro aveva collaborato alle musiche dell'opera di Peri, che però pare ci sia giunta incompleta. Ma questo non è un problema perchè le ricerche, gli studi e i completameni non sono mai mancati nella storia della musica e, quindi, credo che sia da poco uscita una nuova versione integrale in cd.
Se da Firenze ci spostiamo a Venezia, incappiamo in quello che molti definiscono il momento veramente iniziale del genere operistico: nel 1637 fu inaugurato il primo edificio pubblico destinato al melodramma, il teatro san Cassiano.
In questo modo, il melodramma, da spettacolo riservato a corti nobili o circoli culturali, si rivolge ad un pubblico più vasto (e pagante) e si tramuta in vero e proprio “affare” alla cui cima sta l’impresario che lo organizzava, scritturava i cantanti e gli strumentisti (che nel frattempo si erano radunati in piccole compagnie itineranti), commissionava il libretto al poeta e la partitura al musicista. Con il ricavato dei biglietti pagava quindi tutti costoro, guadagnando ciò che avanzava. Fu così che venne messo in risalto sempre più il ruolo dei veri protagonisti, i cantanti dai quali dipendeva di fatto il successo o l’insuccesso della rappresentazione.
Il pubblico dei teatri barocchi non era come quello dei teatri moderni, ridotto di numero ma silenzioso e generalmente concentrato: passava invece il tempo facendo salotto, discorrendo e mangiando soprattutto durante i recitativi (le parti cantate molto vicino al parlato che facevano andare avanti la vicenda) e le arie dei personaggi minori (l’aria era invece l’episodio in cui la vicenda si ferma per dare spazio all’espressione del sentimento, dell’”affetto”, di un personaggio; questo avveniva mettendo in mostra tutta la bravura e il virtuosismo dei cantanti).
Le arie si dividevano in vari gruppi: vi erano le arie di sorbetto, affidate a personaggi secondari e chiamate così perché eseguite mentre gli spettatori mangiavano il gelato. La prima donna, invece, (o il primo uomo), cioè l’interprete più atteso faceva il suo ingresso in scena con l’aria del baule, ossia un’aria che metteva in luce le loro qualità vocali (per questo la portavano con sé come un bagaglio e la eseguivano sempre anche se proveniva da un’altra opera e non aveva nulla a che fare con quella rappresentata in quel momento). A pagare le conseguenze di quella moda furono i librettisti i cui testi venivano spesso deturpati e modificati senza nessun rispetto.

domenica 8 marzo 2009

tema e variazioni (2): capriccio

Il “capriccio” è una forma musicale bizzarra (da ciò prende il nome!) che non risponde a determinati schemi o moduli. Nasce nel sec. XVII come composizione strumentale dal carattere estemporaneo ed estroso. In seguito assume anche il significare di “studio”, cioè di esercizio tecnico per uno strumento.
Riguardo alla forma musicale “tema e variazioni”, possiamo ben inserire un percorso che ha per protagonista proprio un capriccio.
Si tratta di quello celeberrimo composto da N. Paganini al termine della serie dei 24 capricci op. 1 (1820). Paganini assegna alla forma del “capriccio” una dimensione e un significato nuovi. La successione svagata e brillante di note acquista un ordine netto, logico, pur senza rinunciare ai tratti bizzarri ed estemporanei tipici del barocco. La raccolta di quelli che spesso si risolvevano in esercizi scolastici viene trasformata in vera e propria musica, venendo investita di una qualità creativa nuova, e diventando anche un compendio della didattica, un manuale del perfetto violinista (da quest’ultimo punto di vista, potremmo fare un parallelo con le Sonate op. 5 di Corelli).
Il n. 24, appunto, è l’unico della raccolta in forma esplicita di “tema con variazioni”, riprendendo ed esaltando la consuetudine, riscontrabile nel tardo barocco, di concludere una raccolta violinistica all’insegna del bizzarro e dell’imprevedibile, talora con notevoli difficoltà esecutive. Il tema è un motivo simpatico e accattivante, dinamico e brillante, in tempo “quasi presto” che generazioni di musicisti riprenderanno per variarlo come fa lo stesso Paganini.
Ai capricci paganiniani si rifà, infatti F. Liszt nei suoi studi che sono brani in cui le possibilità tecniche del pianoforte sono esplorate fino ad un limite mai toccato in precedenza. Allo stesso tempo l’elaborazione e la progressiva trasformazione della forma testimoniano in modo ricco e completo la poetica lisztiana. I 6 Studi da Paganini (1838 e 1851) elaborano direttamente cinque capricci e il finale del concerto in si minore (il capriccio n. 24 viene elaborato nell’ultimo degli studi lisztiani sempre in forma di “tema con variazioni”).
I due quaderni di Variazioni su un tema di Paganini (che utilizzano sempre il tema del Capriccio op. 1 n. 24 in la minore) occupano un posto speciale nell’opera di J. Brahms: costituiscono un esempio unico di tema variato basato unicamente sull’elemento virtuosistico. Composte tra il 1862 e 1863, in queste variazioni Brahms ha saputo ricreare il diabolico virtuosismo dell’originale, tanto che Clara Schumann le soprannominò le “variazioni dello stregone”. Consistono in una versione pianistica dell’originale violinistico e in 28 variazioni divise in due quaderni. Nonostante i propositi virtuosistici – ciascuna variazione esplora inoltre una tecnica nuova –, l’opera non risulta affatto arida.
Propongo un sinteticissimo sguardo a quelle, forse, più belle ed interessanti.
I quaderno. Il tema viene esposto in la minore (tonalità originaria), in 2/4; le due mani suono in ottava, senza accompagnamento. I. Movimento continuo e grintoso di semicrome che richiede un gioco legato di seste alla destra e terze alla sinistra. Leggera variante armonica alla tredicesima misura in cui appare la sesta napoletana. VII. Le ottave cromatiche per moto contrario, nei registri estremi dello strumento, si oppongono a un disegno più fitto, in eco, nel registro medio. X. Assai lontano dallo spirito paganiniano, è uno studio tetro, in sincope, sotto voce, con crome staccate alla sinistra e terze legate alla destra. Il tema si trova nella zona centrale del pianoforte. XI. La maggiore. È un moto perpetuo un po’ naif come un carillon in ottave su uno sfondo di semicrome. XII. La maggiore. Riflessi cangianti di sonorità intrecciate alle due mani che sembrano giocare con l’acqua. Il motivo ostinato della sinistra (sei semicrome/una croma) è abbellito da sestine alla destra.
II quaderno. IV. Poco allegretto, con grazia: un valzer viennese, languido, senza notevoli difficoltà pianistiche. V. Un delicato scherzo in ritmo ternario: il tema è ridotto al suo scheletro armonico sullo scorrere delle terzine della mano sinistra. VI. Un capriccio violinistico, senza accompagnamento. XII. Poco andante in fa maggiore: intermezzo lirico e sentimentale alla maniera viennese. L’unico studio che sfugge alla tonalità di la. È scritto a tre voci. La destra svolge il canto in ottave avvolto dagli arpeggi della sinistra.
Anche nel Novecento, il fascino dell’ultimo capriccio paganiniano e il desiderio di riprenderlo sotto forma di “tema con variazioni” è stato fruttuoso e ha prodotto, ad esempio, la Rapsodia su un tema di Paganini op. 43 per pianoforte e orchestra di S. Rachmaninov. L’autore qui raggiunge i più alti vertici del virtuosismo pianistico e della ricerca di effetti pianistici sempre più sorprendenti, a discapito forse del vero e proprio approfondimento musicale.
Anche qui propongo alcune suggestioni.
Introduzione. Poche battute orchestrali utilizzano alcuni frammenti melodici del tema principale.
I. Precede l’esposizione del tema presentandone semplicemente lo scheletro ritmico.
Tema. Esposto dai violini.
VIII-IX-X. Variazioni virtuosistiche caratterizzate dalle possenti masse accordali del pianoforte (VIII), da un’insistente sincope ritmica (IX), dall’inserimento del tema dell’antica sequenza gregoriana Dies irae (X). È un trittico di variazioni che sempre riprodurre il ritmo della civiltà industriale del lavoro e dell’ansia produttiva.
XIX. Eterei disegni nel registro acuto del pianoforte con un ritmo stravolto e carattere metallico.
XXIII. Ritorno del tema esposto dal pianoforte e subito ripreso dall’orchestra.
XXIV. Il discorso musicale si fa serrato e stringente: i frammenti del tema principale si combinano con il tema del Dies irae. La composizione termina (stranamente?) in pianissimo con un semplice pizzicato degli archi.

giovedì 5 marzo 2009

la traviata, preludio

Centocinquantesei anni fa, il 6 marzo 1853, andava in scena, al Teatro la Fenice di Venezia, uno dei melodrammi verdiani destinato a rimanere nella storia della musica: La Traviata.
Seguendo quasi un cliché di tante altre composizioni, la prima rappresentazione di quest'opera fu un vero e proprio fiasco tanto che la versione ormai nota ed eseguita è quella che Verdi modificò (pochissimo per quello che lui ebbe a dire esplicitamente, un po' di più per quello che sostengono i critici) per la nuova rappresentazione, sempre a Venezia ma al Teatro san Benedetto, nel 1854.
Non scendo nel merito di tante questioni circa la posizione che La Traviata ha nell'intero corpus verdiano (perchè non ne sarei all'altezza), ma certamente può meritare l'appellativo di "tragedia borghese" e le può essere riconosciuto un ruolo centrale nello sviluppo dell'autore: ormai allontanatosi dai soggetti legati ad epoche remote (Attila), leggendari (Macbeth) e cavallereschi (Ernani), Verdi opta per la rappresentazione di qualcosa di quotidiano che potesse veramente toccare i suoi contemporanei. Ecco nascere allora Rigoletto (dove borghese non sarebbe propriamente il contesto ma il personaggio principale), ma prima ancora Luisa Miller (più borghese ma meno fortunata, purtroppo).
A tale proposito, il soggetto, proveniente dal dramma La Dame aux camélias di A. Dumas figlio, come successe per Rigoletto e come succederà con Un ballo in maschera per motivi non troppo differenti, non venne pienamente accolto dalla censura. Fu deciso, infatti, di ambientare la vicenda nel secolo precedente (il XVIII) per evitare un'eccessiva percezione della contemporaneità dei fatti. Ma proprio questo fece scivolare l'attenzione sull'intento verdiano di offrire agli spettatori una trama che li coinvolgesse perchè, con un sapore quasi cronachistico, potessero riconoscere gli ambienti da loro frequentati e i mali della loro società (bellissima, a questo riguardo, la rappresentazione con Patrizia Ciofi e Roberto Saccà fatta nel 2004 nella Fenice restaurata).
Due preludi sono presenti nell'opera: quello iniziale e quello del terzo atto. Entrambi appaiono fortemente legati anche al primo ascolto. Per realizzare con la musica il suo progetto, Verdi riuscì a comporre questi due brani (come anche buona parte dell'opera) per avvicinarsi al mondo dell'intimità e della quotidianità dell'ambiente borghese (letto però con occhi disincantati).
L'inizio è praticamente identico perchè presenta lo stesso tema con minime differenze. Lo scarto è costituito dal fatto che il primo preludio (dato l'ovvia posizione) si erge a sintesi dell'intera opera come per ri-leggerla tutta. Dico ri-leggerla perchè lo fa a ritroso, in flash-back: il fatto che il primo tema sia in comune con quello del terzo atto ci trasporta subito nella scena corrispondente con Violetta ormai malata; ad esso segue l'inserimento di quel celeberrimo motivo melodico (cui molte pubblicità dovrebbero essere grate) che ritornerà nel secondo atto - "Amami, Alfredo" - e che rappresenta uno dei nodi principali della storia d'amore fra i protagonisti; il tutto sfocia nel clima spensierato e gaudente su cui si aprirà il sipario e che costituisce l'atto primo.
Il secondo preludio, quello al terzo atto, invece, dopo le prime battute, difficilmente potrebbe anticipare una riunione godereccia di amici (come quella che si era lasciato alle spalle al termine del secondo atto) ma penetra, in modo molto nobile e mirabile, nell'epilogo del dramma ormai, come Violetta, consumato. Ecco le parole di commento di Boito: "Sottile nel senso latino di gracilis, exilis è veramente l'epiteto necessario per caratterizzare quella commoventissima pagina. [...] Per significare uno che muore tisico noi diciamo: muore di mal sottile. Quel preludio par che lo dica coi suoni, con quei suoni così acuti e tristi ed esili, quasi senza corpo, eterei, malati di morte imminente. Chi avrebbe potuto pensare ch'era in potere della musica di realizzare l'ambiente d'una camera tutta chiusa verso l'alba, d'inverno, dove si veglia un malato, prima che fosse scritto quel preludio? Quel silenzio! Quel silenzio quieto e penoso fatto di suoni! L'anima della morente legata alla salma da un sottilissimo filo di respiro!".

mercoledì 4 marzo 2009

tema e variazioni (1): follia

Il tema (dal verbo titemi = porre) è l’idea musicale fondamentale, caratterizzata da elementi melodici, ritmici e armonici suscettibili di sviluppo, elaborazione e variazione all’interno della composizione. È l'elemento su cui si basano tutte le forme musicali e ha come caratteristiche fondamentali l’individualità, la riconoscibilità, l’incisività e la chiarezza tali da consentirne una facile identificazione.
Variare significa mutare, trasformare. Nella forma musicale della “variazione”, quindi, il tema si espone, si completa e riceve nuovi ornamenti ma queste modificazioni, per quanto profonde esse siano, non lo pongono in movimento, non lo fanno propriamente agire perché esso rimane allo stato di riposo. Nella variazione il tema non viene elaborato o sviluppato ma continuamente ripensato rinnovato sfruttando e valorizzando ogni sua risorsa e possibilità (tutti gli elementi che il tema – melodia, ritmo, armonia, timbro – sono suscettibili di variazione).
Ci sono, nella storia della musica, alcuni temi che ricorrono spesso attraverso tutte le epoche perché hanno ammaliato più autori. Tra i più antichi e celebri vi è la cosiddetta “follia”.
In origine si tratta di una danza portoghese in uso fin dal sec. XV che nasce come connessa ai riti della fecondità, è caratterizzata da un ritmo rapido, dal suono di nacchere, dai danzatori travestiti e dal fatto che sembravano essere fuori di senno (basta pensare al nome!). Esportata in Spagna, Francia e Italia, si trasformò in una danza di corte, in ritmo ternario, molto libera nei movimenti, perdendo la carica dionisiaca che la pervadeva. Fu nei sec. XVII e XVIII che se ne ricavò un tema melodico ben definito e uno schema armonico impiegati come base per variazioni strumentali.
Non ha bisogno di grandi presentazioni Arcangelo Corelli (1653-1713), uno tra i maggiori rappresentanti del barocco strumentale italiano e capostipite di una scuola che si irradierà in tutta Europa, che attinge alla “follia” per l’ultima delle sue Sonate per violino e basso continuo op. 5 (1700), la dodicesima in re minore.
Il tema viene presentato e poi variato 23 volte compendiando e coronando ogni sfida tecnica mossa al violinista. Il percorso attraverso cui Corelli ci conduce è un percorso camaleontico che vuole irretire l’ascoltatore attraverso continue trasformazioni del tema di cui, nonostante tutto, si mantiene sempre forte la memoria (per questo non si parla di tema che agisce ma rimane statico) ma che acquisisce man mano un carattere sempre più ossessivo e trascinante.
Ecco un semplice schema della Sonata senza troppe pretese.
Tema. Duplice esposizione del tema sul basso di follia (due periodi di otto misure ciascuno). 1. Fornisce schegge di ricordo del tema. 2. Tema esposto saltellando su varie note mediante arpeggi. 3. Gioco di botta e risposta tra violino e basso che insieme alternano gruppi di quattro e poi tre note, rendendo difficile il mantenimento del ritmo. 4. Spetta al violino il ruolo dell’accentuazione. 5. Inversione dei ruoli: accentuazione al basso, il violino completa l’esposizione. 6. Per creare l’effetto del moto perpetuo, vengono incrementati i suoni eliminando le pause. 7. Inversione delle parti rispetto alla variazione precedente. 8. Legato espressivo delle due note a due a due in un clima opposto alla precedente variazione: lentezza esasperata. 9. Dialogo serrato, febbrile e ansioso tra violino e basso. 10. Agile andamento per terzine del violino. Il basso tace sul tempo forte della misura. 11. Il tema è riproposto abbreviato e rallentato. 12. Nei gruppi di quattro note sono camuffate alcune note del tema; spetta al violinista sottolinearle. 13. Proposta rapida della cellula ritmica ternaria. 14. Pagina lirica: il violino si riposa con suoni molto lunghi lasciando lavorare il basso. 15. Il violino suona due note contemporaneamente. 16. Il violino inizia sempre con una pausa consentendo così di percepire il chiaro ruolo degli strumenti che realizzano la linea del basso. 17. Figurazioni sincopate al violino. Andamento regolare per semimine al basso. 18. La concitazione del violino poggia su chiara scansione ritmica del basso. 19. Gli strumenti giocano ad imitarsi tra loro. 20. Tutto viene impostato per gruppi di tre note. 21. Inversione della parti rispetto alla variazione precedente: il gioco delle tre note è portato al basso. 22. Pagina virtuosistica non basata su una semplice sequenza di note veloci ma su una duplice sequenza di note. 23. Inversioni delle parti rispetto alla variazione precedente.

lunedì 2 marzo 2009

ballata op.23

Niente di nuovo ci potrebbe aspettare nel leggere "ballata" come titolo di una composizione.
Ma siamo nel 1833 quando Chopin pubblica la sua prima Ballata (l'op.23 in sol minore) e niente essa ha a che vedere con la tradizionale forma tanto in uso nei secoli precedenti.
Era, infatti, una composizione strofica di carattere generalmente profano destinata al canto e alla danza (come suggerisce il nome stesso). Già dallal fine del 1700, però, conobbe un diverso utilizzo quando indicava una composizone sempre vocale ma strettamente legata con le omonime composizioni letterarie di tanti poeti romantici. Fu così che si aprì la strada allo sviluppo della ballata strumentale ottocentesca, di cui i più grandi compositori di quel periodo non hanno mancato di lasciarci magnifici esempi: Chopin, Liszt, Brahms.
Fu propriamente Chopin a ideare un pezzo di musica esclusivamente strumentale che fosse una trasposizione dell'antica ballata narrativa. Rimane questo carattere fortemente narrativo, però, perchè nelle sue ballate troviamo una voce che racconta ed evoca storie e leggende. Rimane anche il carattere originario di danza in quanto Chopin utilizza sempre ritmi ternari (6/8 o 6/4).
Pare, inoltre, che la fonte letteraria di ispirazione per questi "poemi" sia stato Adam Mickiewicz, un poeta polacco ben conosciuto da Chopin. Una corrispondeza dell'autore con il contemporaneo e amico Schumann ci dice addirittura quali composizioni poetiche abbiano determinato la creazione delle ballate chopiniane; ma, in realtà, Chopin va oltre e fa riferimento ai poemi solo in modo vago e spesso impreciso tanto che non è possibile trovare una corrispondenza certa. Probabilmente quello che aveva trovato in Mickiewicz, e che aveva trasposto in musica pura, era uno stimolo eroico e narrativo più un contenuto preciso e circoscritto.
La prima Ballata, come anche le altre, utilizza la forma bi-tematica che si basa sul contrasto due due elementi melodici (quelli che nella forma-sonata possono a ragione essere chiamati "temi" e che danno vita ad un vero e proprio sviluppo tematico qui solo accennato) di carattere diverso e contrapposto. Contiene una parte centrale un elemento nuovo che, come nella terza, assume l'aspetto e la leggerezza di un ritmo di valzer e che contribisce, nell'economia generale della composizione, a creare un'ulteriore contrasto.
La voce narrante, di cui dicevo prima, entra subito, dopo una breve introduzione, esponendo in tempo Moderato il primo tema nella tonalità d'impianto (sol minore). Gli fa seguito, dopo il necessario episodio di transizione, il secondo che cambia tempo (Meno mosso, sottovoce), tono (mi bemolle maggiore) e carattere (espressivo appassionato). Dato che non esiste una specifica sezione di sviluppo, i due motivi melodici proseguono il loro racconto intrecciandosi fra di loro: al termine dell'esposizione del secondo tema, infatti, si inserisce la ripresa del primo (sempre in tonalità minore, ma questa volta in la) che, a sua volta, riconduce al secondo tema modulato in la maggiore e modificato nel carattere (indicato ff largamente, ha un forte sapore eroico e trionfatore).
Toccato un vertice sonoro di alta tensione emotiva (fornita da entrambi i temi: il primo per l'aspetto a tratti misterioso, il secondo per la sua ri-esposizione gloriosa), è' giunto il momento di introdurre un'oasi di serenità costituita dalla parte centrale: si tratta di un vivace e leggero episodio a ritmo di valzer in mi bemolle maggiore in cui la linea melodica della mano destra non conosce sosta nel suo viaggio che spazia su buona parte della tastiera. In questo contesto ben si inserisce una ripresa (l'ultima) del secondo tema arricchito da qualche variazione tanto da rendero più corposo e sonoro.
La Ballata volge al termine: rientra il primo tema nella tonalità originaria e sottovoce come per predire in modo cupo qualcosa di eclatante che sta per accadere. Infatti prelude alle ultime cinquanta battute che costituiscono la coda del brano: una coda cosiddetta "non tematica" in quanto non presenta nessun richiamo ai due precedenti motivi utilizzati più volte nel corso della composizione. Il suo carattere è invece quello di una grande corsa affannosa e precipitosa verso la meta finale: è indicata presto con fuoco e con bravura (ce ne vuole tanta non solo per questa parte finale!), richiede note sforzate e accenti vigorosi come anche sbalzi dinamici non indifferenti (dal p al ff in una decina di battute) e si chiude con due fulminee scale ascendenti intervallate dai rintocchi funebri di accordi nel registro grave e dalle ultime ottave in fff, da eseguire all'inizio poco ritenuto e poi accellerando, che siglano questa meravigliosa narrazione pica.

o sapientia

Il canto liturgico cristiano antico (chiamato in modo un po’ troppo generico “gregoriano”) nasce all’interno dell’azione liturgica come sua componente essenziale. La maggior parte dei testi messi in musica è tratta dalla Sacra Scrittura ma non si tratta però di cantare un testo biblico durante una liturgia, ma di fare una vera e propria lectio divina su quella Parola di Dio ed esprimerla con mezzi musicali. Proprio per questo, forse, pur rimanendo anonimi, i compositori appartenevano prevalentemente all’ambito monastico.
All’interno del grande repertorio “gregoriano”, sette brani (propriamente “antifone”), che ormai da secoli vengono utilizzate nei giorni precedenti il Natale (dal 17 al 23 dicembre), spiccano per la loro alta qualità e spiritualità: sono le cosiddette “Antifone O” perché iniziano tutte con quella particella invocativa che riassume bene il clima degli ultimi giorni del tempo di Avvento.
Eccone i testi nella traduzione italiana (se servisse a qualcuno, dispongo anche di quella originale in latino e delle citazioni dei libri da cui sono tratte): 1) O Sapienza, che esci dalla bocca dell’Altissimo, ti estendi ai confini del mondo, e tutto disponi con soavità e forza: vieni, insegnaci la via della saggezza. 2) O Signore, guida della casa d’Israele, che sei apparso a Mosè nel fuoco del roveto, e sul monte Sinai gli hai dato la legge: veni a liberarci con braccio potente. 3) O Radice di Iesse, che ti innalzi come segno per i popoli: tacciano davanti a te i re della terra, e le nazioni t’invocano: vieni a liberarci, non tardare. 4) O Chiave di Davide, scettro della casa d’Israele, che apri, e nessuno può chiudere, chiudi, e nessuno può aprire: vieni, libera l’uomo prigioniero, che giace nelle tenebre e nell’ombra di morte. 5) O Astro che sorgi, splendore della luce eterna, sole di giustizia: vieni, illumina chi giace nelle tenebre e nell’ombra di morte. 6) O Re delle genti, atteso da tutte le nazioni, pietra angolare che riunisci i popoli in uno, vieni, e salva l’uomo che hai formato dalla terra. 7) O Emmanuele, nostro re e legislatore, speranza e salvezza dei popoli: vieni a salvarci, o Signore nostro Dio.
Lo schema musicale è identico per tutte le sette antifone ed è fondamentalmente binario: si aprono con un titolo del messia che viene poi amplificato da una descrizione e si chiudono con l’invocazione, rivolta al messia appunto, perché egli venga ad agire verso di noi secondo la modalità e le caratteristiche indicate nel titolo.
Marcando le tappe dell’avvicinamento al Natale, costituiscono la sintesi dell’attesa dell’umanità e descrivendo la rete di situazioni di disagio da cui tutti desideriamo uscire.
L’attacco (corrispondente al titolo del messia) è uno scatto verso l’alto (un intervallo di quarta ascendente: do-fa) che, dopo aver raggiunto il vertice (il fa, appunto), scende ondeggiando per sostare su una nota bassa (il re): è grido, supplica e attesa.
La frase che espande il titolo cristologico si muove anch’essa sulle due linee già evidenziate: prima c’è una graduale ascesa verso l’alto, quasi per prendere forza, che termina in un ricciolo di note che vogliono darci il brivido della vetta (viene raggiungo il la ma si tocca anche il si come nota di volta), per poi scendere di nuovo fino ad una nota bassa, fino al luogo da dove parte la successiva richiesta e invocazione (lo stesso do iniziale).
Il vieni canta in eco al primo O (intervallo di quarta ascendente: do-fa): stesse note, stessa ascesa, stessa logica: non ci sarebbe nessun vieni se non ci fosse la fiduciosa speranza di qualcuno che è stato invocato all’inizio.
E dopo il vieni, le richieste, varie, ma tutte convergenti nell’esprimere alcune esigenze assolutamente fondamentali: la luce che illumina (ant. 1 e 5), la forza che libera (ant. 2, 3 e 4), la solidarietà che salva (ant. 6 e 7). È interessante notare che, nella versione gregoriana, la frase che espande la richiesta di aiuto è resa con note che scendono fino al punto più basso (il la grave), proprio per toccare la confusione di chi è ignorante (ant. 1: insegnaci la via della salvezza), la prigione di chi è schiavo (ant. 3: vieni a liberarci), il buio dell’inerzia (ant. 4 e 5: chi giace nelle tenebre), il fango della creazione (ant. 6: salva l’uomo che hai formato dalla terra).
Le “Antifone O” possono giustamente essere lette come il segno di qualcuno che sta aspettando qualcun altro e che quindi si fa bello, si fa smanioso dell’incontro, si ritocca, si rimodella, si risistema, si carica prima dell’appuntamento. Un appuntamento pieno di luce. Sono sette invocazioni, sette sospiri, sette desideri, sette pensieri; tutti d’amore (ne abbiamo tutti bisogno).

domenica 1 marzo 2009

tu che le vanità

Eccoci dunque a Tu che le vanità.
Siamo nell'ultimo atto del "Don Carlo" ed Elisabetta si avvicina alla tomba di Carlo V presso il chiostro di san Giusto per rivolgergli una preghiera estremamente lirica in cui, ormai disperata per la sorte sua e dell'amato don Carlo, apre il suo cuore liberando ogni sentimento che vi alberga (ciò che sarà scandito dalla struttura del brano).
L'aria è introdotta da un preludio orchestrale (l'inizio proprio dell'atto) che, in modo sommesso, fa risuonare alcuni frammenti del coro Carlo, il sommo imperatore cantato dai frati proprio sulla tomba dell'imperatore nel II atto (o I).
All'alzarsi del sipario, la musica si impenna in voli, spesso interrotti, che preludono alla drammaticità successiva.
Entra Elisabetta ed intona la sua preghiera. La prima parte dà il nome all'aria: Tu che le vanità conoscesti del mondo e godi nell'avel il riposo profondo, s'ancor si piange in cielo, piangi sul mio dolore, e porta il pianto mio al trono del Signor. Si potrebbe ulteriormente dividere questa sezione in una prima fase in cui, partendo dal fa diesis su Tu e proseguendo in modo molto intenso e deciso, Elisabetta non sembra iniziare una vera e propria preghiera ma esprimere un risentimento o, forse, una tristezza e una delusione tenutasi dentro per troppo tempo. A questa frase segue l'implorazione in senso stretto: una meravigliosa linea melodica, tra l'altro molto estesa, ricca di crescendo e diminuendo, di indicazioni quali "espressivo" e "molto dolce" (s'ancor si piange in cielo), "marcato" (del Signor), "grandioso" (pianto mio).
Inizia poi una sezione di recitativo punteggiata da note staccate dell'orchestra: Carlo qui verrà! Sì! Che parta e scordi omai... A Posa di vegliar sui giorni suoi giurai. Ei segua il suo destin, la gloria il traccerà. Per me, la mia giornata a sera è giunta già!
Dopo un prescritto "lungo silenzio", ha luogo la sezione centrale carica di rimembranze: un Allegro moderato che chiama in causa il suolo di Francia e il giuramento d'amore e che si chiude con la constatazione dell'amara brevità di tale felicità: Francia, nobile suol, sì caro a' miei verd'anni! Fontainebleau! ver voi schiude il pensier i vanni. Eterno giuro d'amor là Dio da me ascoltò, e quest'eternità un giorno sol durò. Nel Largo seguente, Elisabetta, sfoggiando un ventaglio di sfumature che vanno da un pianissimo indicato con ppp ad un forte su fior, chiama la natura intera a cantare il loro amore: Tra voi vaghi giardin di questa terra ibéra, se Carlo ancor dovrà fermar i passi a sera, che le zolle, i ruscelli, i fonti, i boschi, i fior, con le loro armonie cantino il nostro amor. La sezione centrale si chiude con un Allegro agitato, arricchito da figurazioni orchestrali tese ed incalzanti, in cui ormai il sogno di Elisabetta tocca la dura realtà: i sogni e i verdi anni precedentemente legati al suolo francese e al giuramento d'amore, vengono abbandonati con ripetuti Addio, con l'espressione della luce che si è fatta muta e col desiderio della pace eterna: Addio, addio, bei sogni d'or, illusion perduta! Il nodo si spezzò, la luce è fatta muta! Addio, addio, verd'anni, ancor! Cedendo al duol crudel, il cor ha un sol desir: la pace dell'avel!
La preghiera e lo sfogo di Elisabetta terminano con la ripresa della prima parte, indicata I tempo ma con un'inevitabile tensione drammatica aggiuntasi in seguito all'effusione lirica che l'ha preceduta. L'aria si spegne, in ppp e nel registo medio dopo aver percorso due ottave di estensione nelle ultime parole, con la ripetizione accorata della richiesta: se ancor si piange il cielo, si piange in cielo, ah il pianto mio reca a' piè del Signor.