domenica 1 marzo 2009

tu che le vanità

Eccoci dunque a Tu che le vanità.
Siamo nell'ultimo atto del "Don Carlo" ed Elisabetta si avvicina alla tomba di Carlo V presso il chiostro di san Giusto per rivolgergli una preghiera estremamente lirica in cui, ormai disperata per la sorte sua e dell'amato don Carlo, apre il suo cuore liberando ogni sentimento che vi alberga (ciò che sarà scandito dalla struttura del brano).
L'aria è introdotta da un preludio orchestrale (l'inizio proprio dell'atto) che, in modo sommesso, fa risuonare alcuni frammenti del coro Carlo, il sommo imperatore cantato dai frati proprio sulla tomba dell'imperatore nel II atto (o I).
All'alzarsi del sipario, la musica si impenna in voli, spesso interrotti, che preludono alla drammaticità successiva.
Entra Elisabetta ed intona la sua preghiera. La prima parte dà il nome all'aria: Tu che le vanità conoscesti del mondo e godi nell'avel il riposo profondo, s'ancor si piange in cielo, piangi sul mio dolore, e porta il pianto mio al trono del Signor. Si potrebbe ulteriormente dividere questa sezione in una prima fase in cui, partendo dal fa diesis su Tu e proseguendo in modo molto intenso e deciso, Elisabetta non sembra iniziare una vera e propria preghiera ma esprimere un risentimento o, forse, una tristezza e una delusione tenutasi dentro per troppo tempo. A questa frase segue l'implorazione in senso stretto: una meravigliosa linea melodica, tra l'altro molto estesa, ricca di crescendo e diminuendo, di indicazioni quali "espressivo" e "molto dolce" (s'ancor si piange in cielo), "marcato" (del Signor), "grandioso" (pianto mio).
Inizia poi una sezione di recitativo punteggiata da note staccate dell'orchestra: Carlo qui verrà! Sì! Che parta e scordi omai... A Posa di vegliar sui giorni suoi giurai. Ei segua il suo destin, la gloria il traccerà. Per me, la mia giornata a sera è giunta già!
Dopo un prescritto "lungo silenzio", ha luogo la sezione centrale carica di rimembranze: un Allegro moderato che chiama in causa il suolo di Francia e il giuramento d'amore e che si chiude con la constatazione dell'amara brevità di tale felicità: Francia, nobile suol, sì caro a' miei verd'anni! Fontainebleau! ver voi schiude il pensier i vanni. Eterno giuro d'amor là Dio da me ascoltò, e quest'eternità un giorno sol durò. Nel Largo seguente, Elisabetta, sfoggiando un ventaglio di sfumature che vanno da un pianissimo indicato con ppp ad un forte su fior, chiama la natura intera a cantare il loro amore: Tra voi vaghi giardin di questa terra ibéra, se Carlo ancor dovrà fermar i passi a sera, che le zolle, i ruscelli, i fonti, i boschi, i fior, con le loro armonie cantino il nostro amor. La sezione centrale si chiude con un Allegro agitato, arricchito da figurazioni orchestrali tese ed incalzanti, in cui ormai il sogno di Elisabetta tocca la dura realtà: i sogni e i verdi anni precedentemente legati al suolo francese e al giuramento d'amore, vengono abbandonati con ripetuti Addio, con l'espressione della luce che si è fatta muta e col desiderio della pace eterna: Addio, addio, bei sogni d'or, illusion perduta! Il nodo si spezzò, la luce è fatta muta! Addio, addio, verd'anni, ancor! Cedendo al duol crudel, il cor ha un sol desir: la pace dell'avel!
La preghiera e lo sfogo di Elisabetta terminano con la ripresa della prima parte, indicata I tempo ma con un'inevitabile tensione drammatica aggiuntasi in seguito all'effusione lirica che l'ha preceduta. L'aria si spegne, in ppp e nel registo medio dopo aver percorso due ottave di estensione nelle ultime parole, con la ripetizione accorata della richiesta: se ancor si piange il cielo, si piange in cielo, ah il pianto mio reca a' piè del Signor.

1 commento:

  1. Grazie. La sto ascoltando ora con Fiamma izzo d'amico e quasi piango. Grazie per la spiegazione.

    RispondiElimina